24 Dic

Adda’ passà a nuttata!

Sono le 15.20 del 24 dicembre del duemilaventi. Sono davanti al pc e scrivo.

Fine.

Basterebbe questa frase per comprendere la portata rivoluzionaria di questo Natale in un mondo pandemico.

A quest’ora, in un anno qualunque, da quando ho memoria e contezza della realtà delle cose che accadono intorno a me, al di fuori dell’ immaginaria storia che scrivo nella mia testolina in modo parallelo a quella che vivo, a quest’ora dicevamo,  la regina Madre avrebbe già dato di matto.

La follia si evince da evidenti tratti distintivi: tono di voce superiore di  3 ottave, patologica ossessione che il cibo non possa bastare mai, così forte da obbligare una persona a turno a indossare un cappotto per essere pronta a entrare in un supermercato e salvare il cenone dalla triste e misera inedia; si sceglie accuratamente la tovaglia, che poi è sempre la stessa da saecula saeculorum e quando lo si fa notare, gli occhi della Regina Madre da verdi si trasformano in rosso focara di Sant’Antonio con tanto di strozzato pianto interiore e lapalissiana tendenza a farti ricordare che il tavolo di casa non è “normale” (che manco un pezzo di legno lungo sul quale mangiamo poteva esserlo a casa nostra) e trovare pezzi di stoffa che possano coprirlo non è semplice. Mutismo. Selettivo.

Vai avanti e procedi nel tuo compito assegnato.

Sì, perché il Natale a casa mia è rigorosa e meticolosa osservanza di riti apotropaici, la cui preparazione viene decisa durante l’ultimo boccone dell’ultimo piatto mangiato durante la festa di Sant’Oronzo il 26 agosto. La festa dell’Immacolata è un test. Un rodaggio di resistenza e resilienza, un esame a cui non puoi e non devi essere bocciato.

Prima dell’era “gruppi di whatsapp”, la regina Madre coadiuvata dalla Regina Madre Superiore, inizia il tour telefonico, tipo chiamata alle armi insomma, in cui si apre la prima fase:

Fase1: riunione telefonica per decidere la riunione per decidere il chi, il come e il quanto, perché per fortuna il quando, ce l’ha già imposto gesù bambino. Parola chiave: decisione!

Fase2: riunione “In presenza”. E’ la fase più divertente ma anche patologica che possa esistere. Il consiglio dei Ministri, per stilare i vari Dpcm di questo meraviglioso anno, ha chiesto l’aiuto da casa componendo il prefisso 0832, con tanto di chiacchierate in dialetto con la promessa di un pacco da giù. Muniti di quaderni, penne ed evidenziatori, le “femmine” delle varie casate danno vita a dolci melodie pennute, mentre i “maschi” si accasciano sui divani intimando di svegliarli appena tutto sarà finito e per tutto si intende il rientro dalla Befana. Si vola alto. Altissimo. Che il Natale non è mica una domenica bestiale qualunque. Ormai siamo abituati a mangiar da Cracco grazie a MasterChef e fare dolci che Igino levati proprio. Ed ecco che entra in gioco la politica. Il partito della tradizione vs il partito dell’innovazione. Il primo, capitanato dalla Regina Madre Superiore, è teatro puro. Commedia dell’arte. Napoli ricorda ancora la sua performance migliore. Il plot? Si punta alla compassione e ai sensi di colpa sui più giovani, iniettando in vena il farmaco della memoria. E’ di fondamentale importanza scrivere ed evidenziare sul quaderno che si potranno pure creare piatti gourmet, ma bisogna passare sul cadavere della Regina Madre Superiore se non le si lascia l’onore e l’onere di pensare ai soli 300 piatti della tradizione culinaria leccese dei giorni in rosso natalizio. Il partito dell’innovazione ci prova. Le nobil-donne delle casate non si arrendono, attingendo a tutte le fonti di creatività. Si guardano negli occhi, scrutano il nemico, in un misto di paura, mistero e ammirazione. Annotano le idee.

Fase 3: divisione dei compiti, moltiplicati per i giorni di festa. La dimora della Regina Madre è una costante che non può e non deve diventare variabile, pena una pandemia devastante. Ah, questa è un’altra storia.

Spoiler- sui 300 piatti della tradizione, la Regina Madre Superiore con l’aiuto del Padre di colui che si festeggia nella mangiatoia, attua la moltiplicazione dei pani e dei pesci e non si sa mai bene come, il bagagliaio sforna teglie che Mary Poppins è entrata in analisi dopo aver osservato la maestria della suddetta.

Il Natale a casa mia è sempre stata una tragicommedia. Abbondanza. Rumore. Discussioni lunghe 3 giorni, messe in pausa e poi riaperte per altri 3 giorni. Quantità.  Abitudini. Le cose che restano sempre intatte. Parole che sai già quando saranno pronunciate. Risate fragorose che fanno male le costole. Come quella volta che si decide di prendere un vestito di Babbo Natale in prestito da un amico salumiere. Era come indossare caciocavallo e salame ungherese. Risate che restano immortali.

E poi ci sono gli odori. Io le ho testate le fragranze delle nuove candele limited edition Natale 2020 o le creme corpo create dagli elfi. Ma mai nessuno riuscirà a imbottigliare quella magia olfattiva che ti pizzica e stuzzica mentre studi, china sui libri, incosciente e pronta a illuderti di cambiare il mondo. Mentre niente e nessuno può distrarti dalla secchionitudine, una squadra di donne in cucina scrive la storia dell’eterno. Buccia di mandarino e olio bollente e nota alcolica che abbraccia un tenero pan di spagna. Mandorle che diventano pasta e si trasformano in pesce dall’occhio di cioccolata e colorati zuccherini che nessuno mai mangerà, adagiati sul piatto di portata, rigorosamente scansati e per sempre incollati dal miele del pucceddruzzo.

Darei indietro tutti i miei esami universitari pur di sentire ancora quell’odore che invadeva casa per giorni, intrappolato in ogni fessura e sugli abiti del giorno prima. E tu sei felice, nel frattempo. Come dice il buon Tabucchi, le persone possono essere felici nei loro frattempi.

Quella squadra di donne capitanata dalla Regina Madre Superiore è la condivisione ante-facebook. La storia di instagram prima che fosse creato. Testimonianza. Mani che toccano e bocche che parlano per raccontare, perché sia fatta la storia, La storia, dei ricordi vissuti occhi dentro occhi. L’assaggio è obbligatorio, pena la morte, quasi. E si canta. Anche quando le ferite sono ancora sanguinanti, anche quando la morte ha spalancato tutte le porte facendo volare pezzi di noi, anche quando le rughe diventano sempre più belle e le cartilagini più deboli, si canta per esorcizzare la paura, per ribadire che siamo vivi per i vivi e per chi quel vento se l’è portato via.

La regina Madre Superiore canta di continuo. Ininterrottamente. O parla o canta e a volte riesce a farlo anche in simultanea. La tv è accesa h24. Ha bisogno di non sentirsi sola. Mai.

 Da Nilla Pizzi a Renato Zero, da Paolo Conte a Iva Zanicchi nella versione pre centoooo centoooo centooo. Mi stringeva il mignolino nella sua 126 bianca in cui entravamo in 6 e mentre cambiava la marcia della macchina, cambiava anche canzone. Sicurezza. Erano momenti di vita quotidiana, sempre gli stessi, momenti che ti facevano sentire parte di un cosmo che ti voleva, che ti stringeva il mignolino con le sue certezze, perché ci sarà sempre qualcuno che se ti ama ti chiede se hai mangiato e ti canta una canzone al telefono e io quei momenti li ho vissuti sul serio, non erano un sogno, li ho fatti miei, sono miei e la vita è meravigliosa, malinconica e allegra al tempo di un cambio di una marcia di auto.

A casa mia, Natale significa-(va) spettacolo. Un anno ci ho persino comprato la colazione con il cachet diviso con i debuttanti della cuginanza srl. Che a noi ci piace ridere assaje. Prendendoci in giro. Ironia.  Bellezza.

Sono certa che questa parola così pregnante e importante per me provenga da quei giorni che profumano di mandarino e cannella. L’ho respirata, sfiorata, fuori tempo e senza tempo.

Attese lunghe una cotta di frittura. Cura.

In questo tempo sospeso e che mai avremo indietro, penso ad Arya.

Vorrei donarle pezzi di storia che ho avuto la fortuna di scrivere e vivere. Vorrei consegnarle in dono la spensieratezza, la presunzione, la “moltezza” dei giorni dei Natali passati, di quando i pensieri sono sempre stati pesanti ma la leggerezza calviniana era più coraggiosa. I nostri figli sono fortunati. Questo è da scrivere a caratteri cubitali. Nonostante tutto. Crediamo siano così immensamente fragili che proviamo a disegnare per loro un mondo un cui non esista il “nemico”, in qualsiasi forma e sembianza possa svelarsi.

Io ci provo, sul serio. A parlarle di un mondo di persone che possano fidarsi vicendevolmente, in cui gli errori sono ammessi e il perdono è il più audace tra i doni. Ci proviamo a mostrarle la strada della paura. Che si può percorrere, tutta quanta. Che la perfezione è da scarabocchiare e che si deve cadere per sentirsi parte di un tutto che è colorato. In un attimo di lucidità, realizzo che io sia stata una piccola coccinella che ha permesso di trasportarla da noi e che non mi appartiene. Vorrei insegnarle il potere della risata. Farle sentire il suo fragore ed educarla a riconoscerlo. La risata che rende magico un momento. Quella che viene dalle vene. Ma anche la bellezza nascosta dietro una lacrima scaturita da un’emozione.

Natale, per esempio, è il periodo dell’anno in cui piango di più. Lacrime in cui dimora una gigantesca forza che mi spinge a sentirmi viva. Caos emotivo. Confusione. Presenza. Assenza.

E’ nella perdita che si trovano cose inaspettate. E’ nella confusione che si varcano i confini di spazi impolverati e dimenticati.

A Natale mi metto sempre un po’ in discussione. Molto spesso resto delusa ma non importa. Significa che ho vissuto sul serio. Pianificare fa rima con odiare, se stessi e la possibilità della scoperta di nuovi orizzonti. Andare in frantumi.

Il venti –venti ha accelerato questa operazione-rivoluzione interiore.

Ho lentamente imparato a evitare di riflettere la mia immagine nello stagno con l’acqua gettata dalle etichette degli altri. Eccesso.

Ci hanno insegnato che la fragilità è una colpa,

invece spesso le cose più belle dell’esistenza

sono fragili, vanno protette

e allora anche al perdere

diamogli un’accezione bella.

Come perdere i pregiudizi.

Oppure quando capita di perdersi

in una città nuova

e per conoscerla ci affidiamo a uno sconosciuto.

Perdere, perdersi, per comprendere meglio.”

(Ezio Bosso)

Il mio desiderio, in questo atipico e fuori-luogo periodo natalizio, è quello di educare mia figlia alla consapevolezza. Quella che ti fa agire senza dover piacere a tutti ma con l’innata sensibilità di provare empatia per la felicità o il dolore altrui e poter fare qualcosa, se necessario. Riconoscere la strada interrotta dalla sofferenza e averne cura e rispetto, per sé e per gli altri. Quel rispetto che ho visto massacrato da ogni forma di sgradevole e illusoria onnipotenza umana, di chi pensa di sfidare la sorte, di chi “meglio vivo e vissuto oggi che morto chissà quando” fanculo il covid faccio quello che voglio”.

E’ che facciamo più caso alla pioggia che ci bagna, ci sporca e ci rende tristi, restando intrappolati, con la testa bassa, infastiditi dalla pozzanghera, ma il colore del cielo quando piove, lo conosciamo sul serio?

Dovremmo trattare le parole piene di odio come i cuochi usano le spezie e quelle piene di amore sincero come lo sguardo degli astronauti in orbita.

Ri-conoscere. Conoscere nuovamente l’importanza dell’assenza che si fa presenza. La mancanza. Persino di tutto quel sub-strato natalizio che ci infastidiva, procurandoci un’orticaria che durava il tempo di una vacanza. La mancanza. Di rituali, intrecci e incastri di incontri e scontri. Di quando “si scendeva” dal norde e la prima domanda, appena sbarcati sulla luna salento era: emmmoh quando ve ne andate?

Amicizia. Di quando, se volevi trovare un amico “emigrato”, sapevi che c’era un luogo, certo e comprovato da anni di statistiche accurate: il caffè letterario( si chiama caffè letterario ma io, in anni e anni di onorata carriera,in qualità di  amica di persone che lo hanno frequentato, non ho mai visto nessuno bere quella bevanda in tazzina).

La mancanza. Degli auguri porta-a-porta che Vespa levati proprio, città-periferia-paese. Che ti ci devi sedere per forza a tavola, dopo aver mangiato l’equivalente in lunghezza dei lavori per la Salerno- Reggio Calabria e non puoi rifiutare, mai dire di No ad una mamma-zia-nonna dei tuoi amici, con l’imbarazzante momento sguardo-pietà che si scioglie solo dopo i primi sorsi dell’ennesimo caffè della giornata e il piatto di dolce fatto in casa aperto proprio per l’occasione. In pochi secondi ti chiedi il motivo che ti ha portato a non chiedere al tuo amico di incontrarti sulla tangenziale, ma poi, osservi la rughetta che l’anno prima non solcava il viso della mamma, ascolti i racconti della lontananza o gli emblematici eventi che hanno scandito il tempo passato.

Ed è in quel momento, tra presepi e alberi di natale scintillanti e a volte imbarazzanti, che sospiri e ti immergi nell’aria che sa di certezze.

Le piccole cose. I cerotti sulle ferite della propria solitudine, gli evidenziatori, i fari sulle persone che restano. Sono proprio loro i luoghi dove fermare la nostra frenesia e incontrare la nostra anima.

Quelle persone che odorano di Natale, tutto l’anno.

E allora va bene così. Non ci sarà nulla di quel magnifico caos nel quale sguazzavo ogni Natale. Ma ci siamo. Siamo qui. Tutti o quasi tutti.

Vivi, nonostante tutto!

Buon Natale. Addà passà a nuttata.

15 Gen

Prima puntata della serie: UN POSTO AL BUIO.

Passata la festa, gabbato lo santo.

soronzo_1

Tutti, almeno una volta nella vita, cadono tra le braccia della morte, attenta scrutratrice dei suoi figli. Solo pochi, risorgono dalle proprie ceneri.

La mia morte provocò fenomeni sonori e luminosi pari a quelli dei fuochi d’artificio che avrebbero acceso in onore del Santo, venerato per tre giorni nella mia città, a fine agosto.

L’avvio del primo razzo è sempre stato incerto. Girano leggende e punti Snai ambulanti, persino sul luogo dell’accensione. L’unica certezza resta il numero di serie che faranno esplodere. Ancora oggi ci sono intere famiglie sedute in auto, in attesa di un bis dell’ultima serie, sempre più folkloristica della prima. Non se ne fanno una ragione.

La mia morte, dicevamo, provocò sconcerto, sgomento,disapprovazione financo scandalo. Fredda, fredda come una morta viva lo sono sempre stata. Ma questa volta mia madre, toccando come era solita fare le estremità del mio corpo, si rese conto che ora, ero una morta realmente morta. Iniziarono ad arrivare le prime telefonate sulla veridicità del fatto. La catena di Sant’Antonio è infallibile.

Minchia, comu fazzu moi, sta frisciu le marangiane*, ca stasira quiddri olenu cu mangianu, poi ede propriu festa, le tradizioni tocca se rispettanu, puru pe li cristiani,sennò ce hannu dire, ca nu onoramu lu Santu nosciu? Vabbene, alla morta ne damu lu cambiu, tie spiccia cu cucini, ca poi me raggiungi.

La sfilata di zie e prozie sino alla terza generazione pareva la sagra del gusto e dei sapori di qualche paesello vicino, profumi e odori della tradizione e boccucce di rosa che cantano lamenti funebri. Battendosi il pugno chiuso sul petto, percosso e scosso da mani di donna del sud, si agitano e sventolano il fazzoletto bianco, urlano e dondolano, perché la morte non ha rispettato il giorno del Santo e ha preso con sé una fanciulla e piangono ridono urlano a comando, raccontando ai nuovi ospiti quanto mi avessero cresciuta. Così, nella terra del morso e del rimorso, non poteva mancare il fenomeno delle chiangimuerti, generazione 2.0.

Con aria sommessa, ma con padronanza del rito, si avvicinarono a mia madre, pregandola di vestirmi “a modo”, di coprire con strati di cotone plurimi e abbondandi quelle ossa sporgenti e poco rispettose della gggente che mi avrebbe osservata.  La gggente.

Lu cunsulu, la consolazione dei familiari del defunto, fu esilarante e paradossale. Ceste di vimini dalle più anziane e contenitori doppia funzione freezer-microonde dal designer fashion dalle più giovani, decoravano la casa. Pasta fresca, brodo con galletto sgozzato in casa, all’uertu, parmiggiana del giorno di festa del Santo, pasta al forno, rustici leccesi, pasticciotti leccesi, frutta fresca di fine estate.  Cupeta e mustaccioli di santo Oronzo , come a ricordare nuovamente quanto fastidio avessi dato, terminando la mia breve vita proprio in quel dì.

Gli uomini appartati fremevano come drogati in crisi d’astinenza. Si avvicinavano l’uno all’altro, gesticolavano nervosamente, bocche vicino agli orecchi chiedevano novità a chi godeva dell’auricolare, con smartphone furbescamente inserito nel taschino, per non dare nell’occhio.

fantozzi

Ancora nienzi. 11 fessa intra lu campu. Zero a zero. Che schifo, morti viventi, un insulto al colore della maglia. Ci era iou l’allenatore, li cacciava tutti. A zappare!

Dice ca anu fermatu la processione. Il don è indignato. Questa morte non ci voleva. Giungono giornalisti e presunti tali a intervistare il parroco della Chiesa matrice. Uomini e donne interrompe la messa in onda della registrazione della puntata in cui la tizia di nome Sharon, con la mutina, furiosa perchè insultata, decide di uscire dallo studio, perché Maria, qui non ce sto a famme prendere pe il culo da queste qua, e tu, tu Chanell, tu se la peggio de tutte.

La testata giornalistica di Mediaset decide di dare spazio a quanto successo nella città barocca, affinchè luce sia fatta nel buio della morte, in rispetto del Santo gabbato. Queste le motivazioni apparse sul sito di Uomini e Donne fansclub. Mara Venier, ingessata per l’ottantesima volta, invita il suo inviato ad andare sul campo, per essere sul pezzo, perché la Rai, radio televisione italiana,non è certo da meno. La notizia prima di tutto. Su facebook prendono vita autonomi gruppi di protesta e di sostegno- vicinanza alla famiglia in lutto. Diciamo No alle morti di magre, perché se le cercano, community e Dietro l’apparenza si nasconde un’anima. Anche per quelle magre, community.

Ho sentito dire che andava a danza. Dicono che mangiasse solo carote. Che poi, che ti aspetti da quel tipo di mondo? Poverine, mi fanno pena.

E poi, senza un padre. Dicono che l’abbia abbandonata. Ma NO, è lei che ha deciso di non vederlo. Che scostumata.

Tutti quegli anni buttata sui libri, a studiare, per quelle lauree che mo, guarda che fine fanno quelli laureati. Non c’è più religione, signora mia.

 Però che invidia, guardala, ce l’avessi io un fisico così.

M A I    PE   JABBU.Oronzo-Canà

NU TE FARE Jabbu* modo di dire salentino. Si augura che una determinata cosa non accada mai alla propria persona.

*melanzane fritte per parmiggiana

…to be continued…

13 Gen

About Me

copertina blog

Sono nata nell’ottobre del 1985, proprio quando in Ritorno al futuro, “Doc” mostra a Marty la macchina del tempo. Il flusso canalizzatore ha fatto sì che io fossi catapultata nel 2015, per correggere e rimediare alla piega che hanno preso gli eventi. Qualche mese fa mi sono recata alla Feltrinelli, indubbia icona letteraria arrivata da poco anche nella nostra città del profondo sud, (confermando la regola che qualsiasi cosa di figo ci sia, abbia un jet lag non indifferente qui nel mondo dei divini Helios-Talassa ed Eolo) e dopo il solito giro con aria un po’ naif, ho chiesto al feltrinello fiero del suo badge in bella mostra, se ci fossero dei libri. Lui, con aria di chi pensa maquestapropriooggidovevavenire, osserva perplesso, si perplime numerose volte, scuote capo e collo e mi dice, signorina, mi sa che questi libri in Italia è difficile che circolino, neppure gli addetti ai lavori li chiedono più. Per alcuni ci sarebbe stato un tempo di attesa indefinito, per altri la prenotazione avrebbe potuto dare i suoi frutti e altri ancora, hanno visto la morte nera sul foglio accartocciato su cui avevo scritto i titoli. Poi, con altrettanta aria naif, do un ultimo sguardo ai libri, mentre flotte di brufolosi pruriginosi si ingozzano di muffin e cioccolata e toh, chi ti vedo, la copertina dell’ultimo libro della mitica BABBBARA, la Barbara d’Urso denoantri, accanto a Francesco Sole e i suoi pizzini e un libro di una tipa che ha pensato bene di lasciarsi palesemente ispirare da quello (geniale) di Francesco Piccolo, Momenti di trascurabile felicità e scrivere quelli che, poraccia, sono i suoi fastidi insopprimibili, che ha voluto donare alla comunità tutta.  Bene, Houston, abbiamo un problema.

Il 2015, l’anno delle auto volanti, dei giubbotti anti pioggia autopulenti e asciuganti, l’anno del futuro, è appena iniziato e io ho circa 8 mesi per arrivare ai miei 30 anni con un resoconto degno di questo nome. Perché, si sa, ora va di moda il caro amico ti scrivo su facebook, nel giorno in cui sono assolutamente più importante di te perché sono stato dato alla luce, tutto quello che tu piccolo bastardo caro amico non hai, o forse speri di avere ma non hai, invece io ho, in questa mia breve esistenza ma così tanto ricca di affetti e averi. Panico, pa panico, pauuuuura. Diamine, corbezzoli, arcipigna, la sveglia sul mio trentesimo compleanno lampeggia e io ancora non ho iniziato a scrivere la maledetta relazione. Allo stato attuale non posso certo annoverare, tra le mie conquiste terrene e spirituali, il sorriso angelico dei miei figli, che hai già avuto modo di conoscere in profondità, avendone condiviso gioie e dolori di colichette, dell’ottima attività intestinale e di tutto quanto concerne l’apparato digerente.  E’l’invidia che mi logora, lo so. Non annovero la ristampa di un mio fortunatissimo romanzo, pensato e scritto alla veneranda età di 9 anni nel garage di mia nonna, mentre tutti gli altri bambini frequentano il catechismo, terrorizzati dal non fare assenze il sabato pomeriggio, alla messa delle 18, altrimenti niente comunione e murrine, la cui produzione ha avuto un inspiegabile picco a metà degli anni ’90. A Murano c’è ancora psicosi. Nella prima metà degli anni Novanta, mentre una ragazzina di appena 15 anni, urlava, gesticolava,  mi parlava mentre lei  a sua volta ascoltava da un auricolare ciò che doveva dire a me, tenera e innocente teenager salentina, io sognavo di essere come quelle quattro squinzie sgambettanti, dal divano di casa de mi nonna, mentre la casa odorava di eau de frittur. E mi sentivo già vecchia. O forse il microbo dell’inferiorità, zitto zitto, iniziava a dimorare nel mio cervello. Ho tinto i capelli di rosso, prima dei 30 anni, pare faccia tendenza. Mi sono già stancata. Mi guardo allo specchio e penso di essere in un bagno della Tirana della fine degli anni ’90, quando pensare alla ricrescita dei capelli era sicuramente l’ultima cosa da fare. Ho spostato i divani già 3 volte da quando viviamo nella nuova casa. 70 mq di pura estasi in locazione. Giocare a tretris nell’adolescenza rende possibile ogni cosa. Sono andata da un tatuatore. 3 tatuaggi in 2 ore. Tutto per ricordarmi che voglio scrivere, sorridere e veder sorridere mentre scatto una foto e danzare, come una bambina che tiene stretti dei palloncini, ma ha i piedi per terra. Ho acquistato scarpette da punta, quelle che le vere ballerine usano per danzare. L’ho fatto dopo una pausa lunga un ciclo di studi universitari, per diventare una scienziata politica ( quanto fa fighezza il primo termine). Mi sono sposata. Ma questa è un’altra storia. E poi, su efficiente insistenza della persona che ho sposato, ho aperto questa finestra sul mondo. Il mio.

Ho deciso di scrivere questo libro virtuale, di condividere quella che è la mia intera esistenza con chi vorrà farne parte. Tutto ciò che mi riguarda, il c.d about me, è in realtà ciò che scrivo e le motivazioni che mi spingono a farlo, nel mio cervello, mentre faccio zumba con la wii, i giorni pari perché è nei dispari che vado a danza e ferma non posso stare; mentre mi reco da un punto A a un punto Z, rigorosamente a piedi, perché odio la macchina e perché ferma non posso stare; mentre cucino, mentre stiro, mentre siedo sul cesso e fidatevi che potrei scrivere l’Eneide visto il tempo di permanenza in quel meraviglioso mondo fatto di piastrelle e ceramica fredda. Scrivo perché mi difendo da un mondo che vorrei diverso, da una vita che amo vivere, da una esistenza come tante, nella media, mai abbastanza per essere o diventare qualcuno, perché mi basterebbe essere me. Scrivo perché sogno di partecipare come ospite alle Invasioni Barbariche di Daria Bignardi, anzi, Daria, ecco, se capiti qui per caso, su questa finestra, se ti affacci al mio mondo, potrai conoscere questo mio sogno, di essere intervistata da te, mentre rifiuto la birra che non amo, il vino manculicani ( manco i cani, trad. per i non salentini)perché dopo metà sorso inizierei a sputtanare me e i miei cari. Gusteremmo un’ ottima cioccolata calda, magari un ciobar veloce veloce, e parleremmo del più e del meno con i denti neri neri, molto televisivi e fotogenici, e ti direi quanto sia felice della vita che mi è capitata e quanto sia strano dirlo, perché se la vai a guardare, questa mia vita, a poco dal traguardo dei 30 anni, è talmente strana che sembra quasi un errore dirlo. A ciascuno il suo.

Questo blog non sarà un libro di Fabio Volo, non è una pizza 4 stagioni, non è una taglia che va bene a tutti. Ma sicuramente è unisex. E’ la storia di partenze e rientri. Di addii, arrivederci, di università, di fallimenti, di soddisfazioni, di malattie e cure, di sconfitte e rivincite. Di anoressia, di perfezione, di amore e demoni, di Salento, spogliato dal sole, dal mare e dal vento. Di amicizia e passione. Di danza e lavoro. Di madri e figli. Di famiglia, vere ali incastonate tra radici. Di cibo e ossessioni. Tra scirocco e tramontana, è la voglia di una ventinovenne che sogna ancora di cambiare il mondo o forse, di trovare se stessa.