Warning: Trying to access array offset on value of type bool in /home/customer/www/marideleo.com/public_html/wp-content/themes/fruitful/functions.php on line 577
12 Gen

Questioni di culo (parte seconda)

IMG-20160110-WA0001-1

Sono passati esattamente due mesi dall’espulsione dell’hobbit.

Allo stato attuale, dormo quasi tre/quattro ore di fila per notte, mi guardo allo specchio e inizio lentamente ad accettare quelle due mozzarelle santa lucia che dondolano sul mio corpo e si trasformano in sassi di acciaio inox se l’aliena decide di ritardare a sedersi alla mensa del signore, ho preso per mano il coraggio e ho prenotato una seduta di epilazione dall’estetista, ho pompato i missili e lasciato 120 ml in dotazione a mia madre da custodire in caso di bisogno dell’oro bianco,  affinchè potessi andare a farmi lavare i capelli da mani esperte per più di 5 minuti e senza l’angoscia di un pianto capriccioso appena venga aperta l’acqua.

Sono passati  due mesi e continuo a pensare che sia sempre una questione di culo.

Ed è così che esordisco quando la gggente mi chiede della mia esperienza.

E’ questione di culo se dopo lo sforzo, senti spuntare i più grossi grappoli di uva dal nome soave: emorroidi, che solo a sentirlo, quel nome, ti si rizzano i peli e preghi che tu non possa avere mai più escrezioni corporali naturali.

E’ questione di culo se la mia mamma non mi abbandona mai, perché è quando si diventa madri che una figlia ha più bisogno della sua di mamma e non c’è compagno/a o  amico/a  che possa sostituire colei che può aiutarti nel momento in cui credi di aver perso la tua dignità di donna.

E’ solo lei che può spogliarmi dolcemente, facendo attenzione,  come quando ero piccola e mi scappava la pipì per strada e ci si doveva fermare in qualche bagno pubblico e mi prendeva in braccio nonostante il peso, avendo cura di non farmi mai e assolutamente mai appoggiare le parti intime sul cesso, con le borse e i cappotti sui capelli e il pacchetto di fazzoletti stretto tra i denti, entrambe sudate come dopo una lezione di fitness.

E’ solo lei che può e deve infilarti nella doccia del bagno di un ospedale , dopo aver posizionato tappeti di traverse per terra e gli asciugamani sul termosifone e  sa come lavarti quelle parti che non hai il coraggio di vedere e toccare e poi asciugarle delicatamente, nonostante i lochi e la puzza di sangue.

E’ solo lei che può fare il tifo e gioisce quando riesci a far le puzzette e crea imbarazzo se lo chiede davanti agli ospiti, in una camera di ospedale. Perché sa che quella puzzetta è cosa buona e giusta.

Perché sa che i morsi uterini fanno male ma sono cosa buona e giusta se la bambina si attacca al seno e provoca fastidio. E sa anche che non devo aspettare di rientrare a casa per farmi mettere una supposta di glicerina e conosce il dolore insopportabile di una evacuazione con la patata cucita e l’ano costellato di emorroidi.  E potrà imballare quintali di ghiaccio secco con garze sterili e inserirle nel tunnel che conduce al mar Rosso.

E’ solo lei che può fare la voce grossa con le infermiere quando la mia di voce è troppo gentile e stupida o ingenua  per farmi portare una tachipirina 1000 per non crepare in silenzio ed è sempre lei che ti stringe la mano e ti sussurra nell’orecchio che un giorno, lontano, tutto questo verrà dimenticato, ma è ancora troppo presto e sciocco sperare di pensare alla “magia” di quei primi momenti vissuti da madre.

E’ solo lei che ha il diritto e il dovere di dirmi quanto sia brutta con quei capelli crespi e privi di forma, lasciati crescere senza cura, di quanto sia fondamentale restare donna, prima di essere madre, poiché non occorre annichilirsi e abbandonare la propria personalità e la propria femminilità per essere delle brave madri.

Anche quando la dedizione, il tempo, le lacrime e i sorrisi, le preoccupazioni , la cura e le gioie prenderanno sempre la stessa direzione, mi ricorderà che esistiamo e viviamo anche per le nostre personalissime passioni.

E’ sempre questione di culo…all’inizio, perché il culo va allenato costantemente per avere degli ottimi risultati.

Così, piccola mostriciattola mia, un giorno quando e se leggerai queste parole ,spero tu abbia intorno a te persone che il caso ha voluto tu incontrassi, ma che la costanza, l’impegno, la fiducia e soprattutto l’amore che si fa azione ti permetteranno di abbracciare proprio in quei momenti che nessun essere umano dovrebbe vivere da solo. E sì, è stato “culo” se nel giorno in cui sei venuta al mondo e in quelli successivi sia stata circondata da familiari ed amici, ma voglio che tu sappia che anche il più profondo e intimo dei legami come quello tra madre e figlia, tra sorelle, tra amanti e amici ha bisogno di ardere. Dovrai mettere sempre nuova legna per alimentare il fuoco della condivisione e della conoscenza pura e totale di chi ti ama, senza dare mai per scontato un rapporto.

Accetta gli inviti e fanne tu, ancor di più di quelli ricevuti.  Fa che la nostra casa sia il tuo rifugio ma anche un formidabile punto di incontro, caldo e accogliente per tutti i tuoi amici. L’amicizia e l’amore non conoscono la stanchezza.

Così, piccola mostriciattola mia, se un giorno deciderai di diventare madre, il mio augurio più grande ad entrambe è quello di poter avere un pizzico di “culo” nell’eccezionalità dell’evento e tanti, tantissimi litigi, discussioni, abbracci, tirate di capelli, parole dolci e amare, silenzi assordanti e parole vuote ma anche dolci romanticherie che ci condurranno ovunque, insieme, così come la tua nonna ha insegnato a me e alle tue zie e spero che tu possa avere accanto un compagno o una compagna che ti stringerà la mano, soffrendo per te, nel silenzio più dolce che esista.

Allena sempre il tuo bellissimo e sodissimo culetto che il tuo papà massaggia delicatamente con l’olio dopo il bagnetto che adori.

Nella vita ce ne vuole tanto ma occorre avere lo sguardo allenato e il cuore pulsante e accogliente per non goderne da soli.

10 Dic

Questione di culo!

E’ sempre una questione di culo…

  1. per tutta la vita ho ipotizzato, fantasticato, sorvolato cieli immensi di romantiche idee legate al momento che precede immediatamente l’espulsione dell’hobbit. La cinematografia universale e le serie tv dovrebbero risarcirmi moralmente in quanto causa principale della mala gestione della verità in tema di travaglio/rottura delle acque/parto e post partum, quest’ultimo poi argomento tabù per eccellenza.urlo

Se la tua ginecologa, a due giorni dal termine, dopo aver “sondato il terreno”, riscaldando  la sua gelida manina nel buio della vagina ( in quel momento puoi  visualizzare nitidamente i sorci verdi) esclama: sento la testa ma lì sotto è ancora tutto sigillato, potresti cadere in uno stato di pazzia nevrotica che annebbia quel poco di lucidità che gli ormoni ti hanno concesso e credere che quell’alieno che è in te non ti abbandonerà mai.  Annunci al mondo, con toni vescovili,  che non conoscerà mai la bellezza di tua figlia, ricominci con succulenti paturnie verso le amiche già mamme che cercano di incoraggiarti come si è soliti fare con un universitario il giorno dell’esame per il quale ha studiato solo 1 ora prima di sedersi e provi a prendere in mano la tua vita abbandonata lì sul marciapiede della nullafacenza un paio di mesi prima ed esci  da quel guscio semi protettivo ma inglobante che ti ha tenuta nascosta dalla realtà delle cose.

Ricordi che le persone esistono, la gggente è in giro e ti osserva come se fossi un dinosauro in città e ti chiedi se ti passano i raggi x perché la pancia fa tanta tenerezza o perché ti si legge in faccia e per il modo in cui cammini che nu je a fai più, che proprio nu te regge de sta così ancora per altri giorni o addirittura un’altra settimana.

E fu sera e fu mattina.

Che possa essere  il tuo ultimo giorno da trentenne senza prole te lo dice nessuno. Programmi il giorno seguente come  sei solita fare. La spesa  del sabato alla coop . Il parrucchiere di tua madre. La breve passeggiata tra piazza Mazzini e piazza sant’Oronzo nell’orario in cui i tredicenni limonano e acquistano patatine e crepes. La pizza serale a domicilio.

Il mio ultimo giorno da trentenne senza prole è stato un venerdì. E la mia domanda esistenziale è la seguente: ma perché le contrazioni-espulsione del tappo e conseguente rottura delle acque avvengono quasi sempre durante la notte???

Come nei più patetici clichè da film hollywoodiano , dalle ore 4 della notte tra il 6 e il 7 novembre ho iniziato a contorcermi silenziosamente, (non capisco l’associazione di idee, ma mentre scrivo mi risuona negli orecchi la voce di FANTOZZI che fa la cronaca del racconto)mentre accanto a me ignaro di tutto mio marito se la dormiva beatamente. E mentre cercavo di tenere a bada il dolore che ancora non era Dolore con la maiuscola, ipotizzavo che fossero solo falsi allarmi e che no, non dovevo illudermi perchè forse non era ancora arrivato il momento.

Vi ricordate la mia paura numero 2, quella sulla cacca? Pericolo scampato. Forte è stato il bisogno di farla naturalmente, senza l’aiuto da casa, ecco.

La fase liberazione era stata avviata, iniziando proprio da lì.

Provo a rimettermi a letto. Ripeto a menadito le lezioni del corso pre-parto. Focalizzo me al di fuori di me, sul materassino al mare dellu salentu, cristallino, mentre prendo il sole, in un’immagine di assoluta serenità durata solo  qualche secondo, spazzata via dal fotogramma del dolore.

In “letteratura” parlano di scosse elettriche che partono dai reni per devastarti in ogni parte del corpo, mentre lì dove non batte il sole ci si prepara per la festa. Provo a sedermi sul letto e iniziare con la tecnica del respiro.  Andando in bagno mi accorgo che qualcosa è cambiato. Dai salvaslip passo agli assorbenti,  quei bei cari amici con cui non parlavo da 9 mesi.

Forse è il caso di far presente ai miei coinquilini (marito, madre e sorella) che potrebbero alzarsi dal letto all’alba e dirigerci all’ospedale. Senza fretta. Con tutta la calma del mondo.

Mia madre mi ha preso alla lettera. Ha steso la lavatrice, non sia mai restiamo senza mutande.

Ha lavato il lavandino, non sia mai restiamo per giorni in ospedale e resta sporca la  casa.

Mio marito ha fatto colazione.

Mia sorella ha imprecato contro la decisione di mia figlia di  espellere il tappo  proprio nel giorno in cui si potrebbe dormire di più.

E io mi sono fatta una doccia, vestita, lavata i denti e controllato che la famosa valigia dell’ospedale, preparata 2 mesi prima, fosse completa.

A distanza di un mese, mentre scrivo, devo violentare la scatola dei ricordi di quel momento perché si sa, il cervello tende a dimenticare il dolore.

Per circa 10 ore dall’arrivo in ospedale sono rimasta in silenzio. Conosco ogni corrimano del corridoio del reparto di ostetricia tanto che mi avrebbero ingaggiato per il remake dello spot anni 80 contro la droga che uccide, trascinandomi da un muro all’altro, sorretta da mia madre che quel dolore lo conosce bene e per 3 volte e da mio marito che, porello, dispiaciuto visibilmente e impotente chiedeva cosa provassi, mentre colei che mi ha generato si trasformava in Maleficent e rispondeva per me.

Ad ogni contrazione correvo in bagno e vomitavo i colori dell’arcobaleno, nuove tonalità pantone dal verde all’arancione e la mia bocca profumava di fiori di campo dopo la corsa di mille cavalli al galoppo. E sudavo. E puzzavo. O per lo meno mi puzzavo. Ho provato a farmi una doccia calda perché così consigliano. Ho continuato a vomitare l’arcobaleno. Uno strano formicolio partiva dalle dita dei piedi e saliva sino alla radice del capello riccio. E camminavo. E pensavo di non farcela, sul serio. Ricordo di non aver aperto più gli occhi sino all’arrivo di mia figlia sul mio corpo e di aver respirato per ore interminabili. Non credo di essere una cattiva donna o peggio, di essere una cattiva madre se dico che, per la mia personalissima esperienza, non ho mai creduto alla favola della bellezza del dolore del parto, alla magia che si sprigiona mentre sei a gambe divaricate e spingi mentre sugli spalti cheerleaders  ti incitano a fare la cacca e spingi, spingi  ancora quando la contrazione è all’apice e ti illudono che la testa stia per uscire e invece viene risucchiata dalla patata (che a breve verrà appellata come “patata barbie”) squartata da un taglio come un bel pesce da mangiare per sera, mentre tuo marito sostiene la testa e osserva tutto questo, uniti da un’intimità che neppure mille esperimenti sessuali possono offrire.

Un lavoro di squadra. Ma a soffrire sei tu e anche la tua creatura che all’ennesima spinta viene fuori come Puffetta  in un mare di sangue. Non credo di essere una cattiva madre se  dico che no, non ho pianto, io che piango anche per le pubblicità, se ho dovuto pensare di più alla mia di sofferenza, di quella  che neppure  dopo uno studio approfondito dei termini della Treccani  potresti spiegare, se non ho percepito  da subito la grandezza de ddiu, quando  moralmente e fisicamente credi che sia tutto finito e invece…

Invece la parte più “divertente” arriva sempre dopo, si sa, come quando durante le feste si resta in pochi intimi e si da sfoggio alla vera personalità degli invitati che si conoscono bene. Se sino a quel momento e per  circa 10 ore la mia bocca era impegnata a respirare come tecnica del corso pre parto impone, dopo la fase espulsiva ho iniziato a tremare e ad aggrapparmi al padre di mia figlia come un salame, chiedendo a bassa voce e con tono sommesso e straziante quanto ce ne avessero quelle cheerleaders lì, impegnate a  ciappare con punti la patata barbie, mentre gli uccellini di Cenerentola  passavano ago e filo.

E poi no, per qualche minuto non ho minimamente pensato che nell’altra stanza il pediatra stesse controllando la salute di mia figlia appena sfornata  e no, non credo di essere una cattiva madre se dico che è stato il padre a  ricordarmi che fosse tutto apposto, che potevo stare tranquilla e alzarmi lentamente dal lettino tutto inzuppato del mio sangue, togliere la vestaglia de “ il macellaio”  e indossarne un’altra per l’arrivo degli ospiti.

Sulla vera questione di culo, occorre attendere che l’aliena  riesca ad espellere i suoi deliziosi escrementi giallini che non riesce a fare da circa 3 giorni…

 

 

25 Nov

La (DOLCE)??? attesa…

Sono fermamente convinta che l’aggettivo DOLCE accanto alla parola ATTESA sia stato aggiunto da gentaglia di sesso maschile oppure da qualche giovincella cui piaceva sicuramente farsi del male.

No, non fraintendetemi. La vita che dà la vita…la grandezza de Diu…l’immenso e l’infinito che si uniscono in una minuscola creatura che cresce all’interno del tuo ventre e la protegge e la nutre per 9 e ripeto 9 interminabili mesi.

Nessuno mette in dubbio tutto questo. Non voglio frantumare in mille minuscoli pezzi il libro etereo, innocente, magico e poetico sulla gravidanza. Vorrei solo essere sincera e raccontare alcune di quelle cose (riguardo alla mia personalissima esperienza) che di etereo, magico, poetico hanno ben poco, contro lo stereotipo dei formidabili mesi in attesa, affinché si possa parlare senza tabù o remore o timori!

x blog

  1. se negli ultimi due mesi di gravidanza, trascorri la tua vita strisciando dal letto al divano e dal divano al cesso e dal cesso al tavolo per nutrire l’alieno che è in te, il rischio di diventare un concentrato esplosivo di cattivo egoismo da bradipo e frullato di ormoni shakerati con quel blues malinconico pre-partum, è molto molto molto alto. Ti ritrovi ad ascoltare musica vagamente romantica coccolando quel mappamondo posizionato tra le tette e la patata che non vedi più ormai da 3 mesi, imparando tecniche da ipovedenti per fornire adeguata  igiene quotidiana,  il tutto bagnato da lacrime sante di donna gravida sul pendìo del monte dell’impazienza e del terrore. Perché sì, si piange tanto e non lo si fa solo nel famosissimo post-partum e non è automaticamente indice di depressione o di infelicità o tristezza all’interno di una piccola parentesi della propria vita che pare non finisca mai. Provi ad immaginare il viso di quell’hobbit che ti strappa la pancia, che ti fa sentire il cuore in gola, letteralmente, che ti impone di dormire con la torre di pisa di cuscini con l’illusione che possa agevolare la respirazione e quindi indurre un lieto sonno che durerà realmente un paio d’ore contro qualsiasi auspicio o intimazione del “dormi ora perchè poi non lo farai mai  più nella tua vita”.
     Il viso di mia figlia non l’ho mai sognato nè immaginato.

    Ho concentrato le mie energie da pila quasi scarica formulando imprecazioni contro il tempo che passava senza che avesse un minimo senso per me. Ho contato i giorni come una maniaca delle cronache degli anni 70 sul calendario di frate indovino, dal giorno dell’ultima mestruazione, mese dopo mese, 280 giorni, lasciando una x con la matita,  o dal giorno dell’ipotetico concepimento, 265 giorni. Ogni giorno. E ogni giorno i risultati variavano. Ho infettato il mio pc con virus inimmaginabili a furia di leggere siti di tutto il mondo, affinchè mi dicessero che sì, potevo partorire prima, o anche dopo, perchè nelle primipare le variabili sono molte, perchè si può entrare in travaglio dalla 38 esima settimana sino alla 42 esima e nessuno di questi siti era in grado di dirmi che la data presunta del parto poteva essere quella giusta.

    Ho googlato ipotetici e reali sintomi relativi alla fine della gravidanza, nonostante le 10 lezioni di corso pre- parto frequentato sino alla fine, assieme ad altre 20 gravide forse anche più strane di me, con l’illusione di poter avere un minimo di controllo.
    E diciamocelo chiaramente:  è il controllo che manca. Poche cose nell’arco dell’esistenza umana sono  fuori controllo come dare la vita a qualcuno e se la gravidanza è fisiologica, non c’è controllo che tenga.
    Ogni momento potrebbe essere quello buono e tu aspetti, attendi, minuto dopo minuto, ora dopo ora e giorno dopo giorno, in una successione monotona e ripetitiva, scandita da eventi simili tra di loro, dove il picco dell’eccezionalità è dato dal numero di volte in cui si va a fare la pipì, dalla nuova manovra che hai inventato per alzarti dal divano illudendoti di sembrare meno foca, dal contorsionismo sviluppato neanche fossi maestra yoga all’ultimo grido per infilare  pantaloni, calzini e scarpe con lacci, dal riflusso che ha ripreso a farti compagnia come un gatto aggrappato dove non batte il sole, con la conseguente riemersione del camionista imbruttito versione 2.0. Ho scartavetrato le ovaie e la pazienza delle mie amiche neomamme con una valanga di domande da far invidia a Mentana e le sue maratone, scoprendo che in alcune situazioni le donne sanno essere estremamente solidali e riuscire a fare gruppo, senza invidie, gelosie e tutta quella sporca roba che ruota intorno al mondo pink e ci fa sembrare arpie l’una contro l’altra armate. Si crea una sorta di coop rosa problem-solving in grado di mitigare le paturnie della gravida, fornendo consigli o raccontando esperienze e coccolando gli ormoni e la mente malata di chi ha una fottuta paura di non essere all’altezza del momento “magico” del dolore. E’ quello il tuo chiodo fisso: non il momento poetico del primo abbraccio a tua figlia, non la magia della vita che prende forma da un’altra. Negli ultimi giorni interminabili è solo il dolore che non conosci e che dovrai affrontare il tuo unico obiettivo quotidiano. Conosci il tuo nemico. Il dolore.

    Balie di vecchie generazioni narrano che la puerpera negli ultimi giorni prima del parto si trasformi in un mostro dalle mille facce, con piedi da elefante, caviglie a forma di bottiglia, mani alla Gianni Morandi, escoriazioni varie ed eventuali sul corpo e capelli da bambola assassina. Ogni mattina sono stata scrutata, osservata come un topo da laboratorio: risultato? la trasformazione era molto lontana. Il mostro mi dimorava solo interiormente. Evviva gli ormoni. Più gentaglia di varia vicinanza mi chiedeva quanto mancasse e perchè mancasse così tanto (quando ancora la data presunta del parto non era stata superata) e più la mia bruttezza interiore prendeva sostanza. Ogni mattina poteva essere l’ultima mattina senza l’hobbit vivo e vegeto, in carne e ossa e ogni mattina dopo la sana e robusta colazione, si concretizzava l’altra incredibile paura: quella  di non fare la cacca.

    Metti che mi succede qualcosa ora e non ho evacuato, partorirò mia figlia in mezzo ad un mare di escrementi, diventando lo zimbello delle ostetriche del reparto. 
    (e via di Halleluja a liberazione avvenuta) 
    E metti che mi dilato e non lo so  e partorisco mia figlia mentre sono intenta a diventare Hulk nel cesso di mia madre e sono sola, senza neppure un paio di telecamere sulla mia postazione per diventare famosa e girare 30 anni e incinta?
    Purtroppo queste domande hanno vagabondato realmente nella mia testa e ho avuto anche il coraggio di condividerle con quella coop rosa di cui sopra.
    n.b. Per i successivi punti sulle cose che vorrei raccontare, dovremo aspettare che la gnoma, lo hobbit, l’aliena, la schiacciatina, l’amore della mia vita, lasci la mano sulla mia tetta produttrice di  varie fragranze casearee …