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26 Mar

Pioverà luce!

Marzo 2020.

L’ultima volta che sono rimasta bloccata in un tempo “sospeso” in casa è stato quando eri nella mia pancia e mancavano 2 mesi al fischio finale, quando avrei dovuto considerarti come il libro più antico che sia stato mai trovato, nel luogo più sacro che potesse ospitarlo, letto in religioso silenzio e trattato come chi sa che oggetti di tale portata sono un’eterna rarità.

Ora tu hai 4 anni, la stessa età che avevo io quando il 9 novembre del 1989, mentre si pranzava tutti insieme a casa della nonna Italia, il telegiornale mandò in onda le immagini di un fiume di folla in festa, perché in una notte, la storia cambiò per il mondo intero, dissero.

C’era un piccone contro la cortina di ferro e un muro, a Berlino, che si stava sbriciolando.

Avevo 4 anni, la tua stessa età, eppure ricordo benissimo quei ragazzi che applaudivano, che si abbracciavano in lacrime e la gioia che invadeva quello schermo. Ed è viva dentro me la riflessione che fece nonna ad alta voce: “ha cangiatu lu munnu”.

 E il mondo era cambiato davvero. Erano arrivati gli anni 90, i pomeriggi dopo la scuola rinchiusi in cameretta, a salutare i germogli di lenticchia che fioriva,  interrata in batuffoli di cotone rubati al cassetto “sanitari” mentre ti sentivi figlia di Marie Curie o nipote di Mendel, con la stessa identica espressione beota che disegnava il volto mentre si cantava la sigla di Bim Bum Bam e Uan diventava il nostro migliore amico rosa. La nostra fervente agenda quotidiana era scandita dagli orari degli episodi dei cartoni animati, i più importanti Maestri di vita, grazie ai quali abbiamo imparato il valore dell’attesa, con il Sommo Oliver Hutton di Holly e Benji, che rimanda all’idea zen di dover aspettare il giorno dopo per sapere se , quella palla che il campione dalla maglia bianca aveva calciato con vigore e rimasta sospesa in  aria  come uno tsunami, fosse davvero entrata in porta e non esisteva il telecomando magico che metteva pausa o la didascalia in basso a destra: “riproduci episodio successivo”. Quello era. Ti doveva andare bene. Dovevi porre attenzione. L’appuntamento era per il giorno dopo, stesso posto stessa ora. Dovevi sognare con ansia. Grande festa alla corte di Francia, canticchiavi e la domanda esistenziale che ormai frullava nella testa era se davvero Oscar fosse contenta di essere donna, perché poi tifavi per Andrè; Dio quanto tifavi per quel gran figo di Andrè, quell’Amore impossibile durato quanto una Rivoluzione ma rimasto immortale. E  iniziavi ad innamorarti chiusa in camera, davanti alla tv e la colonna sonora dei nostri anni migliori veniva registrata su musicassetta con tanto di nastro adesivo, la stregoneria che ti consentiva di  registrare tutte le volte che potevi senza cambiare cassetta, tappando dei buchetti. Si piangeva stringendo il walkman sony con Bryan Adams

e speravi di diventare grande per fare parte del mondo anche tu.

E poi grande lo sono diventata davvero, mediamente, ecco.

Per chi come mamma e papà tuo ha scelto di frequentare l’Università fuori città, l’#restoacasa ha tratti famigliari. Durante la preparazione di un esame, quando non avevi la necessità di varcare l’uscio per immergerti nel mondo dei mezzi pubblici romani che ti avrebbero condotto nel sottosopra demogorgonico della Sapienza (perché figlia mia, io ho questo ricordo: l’immagine di una città Eterna che odora di petali di rose che ricoprono di rosso il Lungotevere, Fellini vivo che passeggia sotto ponte rotto, il sole rosso di Mirò che illumina il Colosseo, la tua mamma che come Poppy dei Trolls saltella felice in via dei fori,  che si scontra con  la grigia e cupa e demoniaca sede di Scienze Politiche della Sapienza), quando si doveva studiare, dicevamo, si avvertiva il mondo con DPCM (DECRETO DI MARI MINISTERIALE) che veniva stampato in Times carattere 100 ed emanato con fare apocalittico, letto in conferenza, con gli occhi da posseduta e i capelli che a Samara glieli ho disegnati io: MI CHIUDO!

I giorni passavano ma era sempre un lunedì tetro e angosciante. Ma quando la data dell’esame era vicina, si annotavano gli orari di apertura del più vicino centro TSO per te e per quelle eroiche persone che si trovavano a dialogare con ciò che si era impossessato del tuo corpo e anima. La nonna Italia ad esempio. E’ sempre stata dotata di magia nera. La potentissima capacità di chiamarti nell’unico momento della giornata in cui decidi che puoi nutrirti, di quel nutrimento che poi è stato fornito proprio da lei, incalzando domande da sacerdotessa con in mano il Rosario. E via di domande:

avete mangiato la parmigiana? E tu, vestita di nero, testa china e cantilena da tarantata, rispondi siiiiiii.

Era buona? Siiiiiiiiiii

Era abbastanza? Siiiiiiiiiii

Forse non era sufficiente? Siiiiiiiiiiiiiiiiiiiii

Amen.

Netflix ancora non era entrata nei nostri cuori e portafogli ma esisteva il fantastico sottobosco borderline dello streaming. 40 minuti di pura estasi cerebrale in stand by che ti spingeva financo a lavarti per dignità umana tua e di chi condivideva il divano con te. I resti di questa esperienza mistica li conserviamo ancora negli armadi. Tute detronizzate a pigiama e pigiami con cui si poteva prendere fuoco per riscaldarsi nelle fredde giornate romane. L’irritabilità portava il mio nome. L’apatia giocava a roulette russa con la parte new age della tua anima.

E’ faticoso lottare contro se stessi ogni minuto del giorno, ogni giorno per anni.

Il coronavirus, quel buffetto virus respiratorio che ha la punta a forma di corona e che tu a 4 anni ne conosci a menadito i sintomi, soprannome amichevole covid-19, un lunedì di un marzo di un anno bisesto, mi ha schiaffeggiata e ha aperto la scatola nera dei ricordi.

Ricordi di anni che puzzano di spreco. Quando un senso di onnipotenza mi spingeva a pensarmi capace di un dominio completo sulla mia esistenza. Erano gli anni in cui non conoscevo altro modo di vivere che l’impegno perpetuo nel tentativo di soddisfare l’ideale di eccellenza, famelica ricerca di specialità, fame di superiorità emotiva che non conosceva tregua. Per una ragazza che soffre di disturbi alimentari come l’anoressia, il grande Inverno è terrificante. Prima di vivere in quarantena, (tempismo perfetto da covid 19) ho cestinato quegli orribili pigiamoni di puro pile 100% formato famiglia dentro ai quali celavo il corpo macilento. Il mio stile di vita era insostenibile. Potevo funzionare perfettamente nutrendomi solo di carote e una mela al giorno. L’ossessione era una radio sempre accesa, h24. Non taceva mai. Credo che il mio peso minimo sia stato 38kg per 1.72 di altezza, che a pensarci bene non so come una fragilità su due gambe abbia potuto avere tutta quella energia. Sentivo le cose con troppa intensità. Prima del tuo arrivo, amore mio, non avevo mai provato o forse mai voluto imparare a spegnere l’interruttore. Non ero abituata a mostrare pubblicamente le mie debolezze. Rallentare è un verbo che odora di cambiamento e coniuga la vita. Bisogna avere coraggio.

Essere costantemente in movimento sembrava dondolarmi, mi concedeva la quiete dopo la tempesta che io stesso creavo. Io ero tempesta. Una volta, un po’ di anni fa, lessi che per sconfiggere la malattia era necessario qualcosa di più grande di essa, perché nulla è impossibile.

Ogni volta che sfidi la paura, ogni volta che fai qualcosa di impossibile, la paura si sgretola come quel muro che ho visto in tv quel 9 novembre. La malattia mi ha resa vulnerabile e al tempo stesso capace di reagire alle avversità. Mi ha evidenziato il lato oscuro scarnificato e illuminata da una luce accecante negli occhi, famelici di vita.  Mi ha costretto a fermarmi, a guardarmi dentro per ammettere che si può essere deboli, soli, conoscersi e riconoscersi nella solitudine. Disgusto. Bisogna arrivare a provare disgusto per essere pronti a smettere di vivere come il mostro di se stessi.

Talvolta ci si deve fermare. Stop. Pausa. Accettare la sospensione. L’assenza.

Arriva un momento in cui addomesticare le proprie fragilità potrebbe essere la sfida più grande. La frenesia cui ero abituata colmava la consapevolezza che se mi fossi fermata a pensare, avrei voluto afferrare qualcosa che non esisteva.

Accettare.

Si può.

Si può accettare di non andare di fretta come se il tempo sia più prezioso della vita stessa; si può accettare che non sia un peccato mortale se il tempo corre più velocemente di noi. Alzarsi di notte mentre tutti dormono per allenarsi per terra accanto al letto che dovrebbe sentirti addosso e svegliarsi mentre ancora tutti dormono per mangiare libri non è lucidare con polvere d’oro le lancette dell’orologio che abbiamo a disposizione. Il mondo non è un binario.

Bene-male

Vero-falso

Sì-No

Zero-cento

Finito-infinito

Possiamo incepparci. Le pile possono scaricarsi. Abbiamo il diritto di perdere il filo. 

Ci può sfuggire qualcosa.

Contaminazione.

La vita è un gigantesco imprevisto. Non è mai pura e non è mai del tutto sporca, amore mio.

La vita è come la tua mano che colori di arcobaleno. E’ un dolce compromesso. E’ litigio e rottura. Stanchezza.

E’ perdono. E’ respiro.

Non occorre dare un senso ogni giorno per avere il diritto di esistere. Agitare i secondi per ricavarne piacere non ha senso. Ci siamo incatenati ad una idea di libertà fasulla e falsificata del nostro fare quotidiano pseudo produttivo che ci fa sedere sul trono della realtà, ma a penzoloni.

La mancanza di pianificazione è un reato.

Poi è successa una cosa che mai avremmo ipotizzato accadesse e che ha cambiato le nostre vite. Non lo so se le ha cambiate per sempre, ma di sicuro ha rivoluzionato la quotidianità. Quando le cose mutano per tutti, allora c’è un effetto domino e tutto resta in aria, come dondolato da un vento leggero.

Io non so nulla della vita, ma forse tra gli errori più grandi che possiamo inserire nella categoria “da non fare” c’ è quello di prepararsi sempre al peggio.

Stiamo provando una sorta di vertigine. Montagne russe.

C’è chi vede tutto con estrema lucidità e chi potenzia la propria  propensione al disfattismo. Ci sono momenti, come questo del buffo coronavirus- monello come lo chiami tu, che non bussano alla porta. La abbattono ed entrano in casa con un boato. E quando arrivano ci sentiamo disarmati.  Ma non è una guerra.

Quella che stiamo vivendo, figlia mia, non è una guerra. Dovremmo smetterla di cercare ovunque un nemico contro cui batterci. Non esistono frontiere, cartine geopolitiche, nazioni più o meno strategiche.

Il virus è democratico, hanno detto.

Il virus porta ognuno di noi a fare i conti con l’arma fondamentale di cui tutti dispongono: la responsabilità.

“Il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri…perché la costrizione o la punizione siano giustificate, l’azione da cui si desidera distoglierlo deve essere intesa a causar danno a qualcun altro. Il solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve render conto alla società è quello riguardante gli altri. La costrizione è giustificabile solo per la sicurezza altrui. Rendere chiunque Responsabile del male che fa agli altri è la regola. La mente umana ha una qualità. La fonte di tutto ciò che vi è di rispettabile nell’uomo inteso come essere intellettuale e morale è la possibilità di correggere i propri errori, di rimediarvi con la discussione e l’esperienza. Mantenersi aperti alle critiche riguardanti la sua opinione e la sua condotta”.

Lo scriveva John Stuart Mill nel 1859 nel suo Saggio sulla Libertà.

Considerarci in guerra ci arroga il diritto di crederci superiori o inferiori, inserisce il tarlo crudele di avere il diritto di odiare. Contro.

Sentirci in uno stato di costrizione permanente voluta dall’ alto ci legittima a considerare persino nell’ uguaglianza della situazione catastrofica, differenze sociali e status quo da recriminare.

La tua casa è più grande della mia. La tua noia è più ricca della mia. La tua creatività è più nutrita della mia. La tua strumentazione digitale è più aggiornata della mia. La tua voglia di correre contro la mia pedissequa accettazione delle restrizioni. Perché diciamocela tutta, siamo tutti Osho con il virus degli altri e poi sotto sotto celiamo idee hitleriane quando ci saltano i 5 minuti. La paura potrebbe renderci ciechi.

Sappiamo cosa farne del TEMPO che ora abbiamo a disposizione nel mondo surreale che ci ha fatto visita?

Arya,

perdonami se da quando il monello virus ci ha sbattuto la porta di casa non esistono più regole.

Scusami amore mio se non ho stampato tutti i lavoretti che amorevolmente e giustamente le tue Maestre inviavano nel gruppo WhatsApp della classe. La festa del papà del 2020 non avrà testimonianza di una poesia da te recitata. Ci perdonerà papo tuo.  Per una volta, la lentezza ha conservato l’ossigeno di cui avevamo bisogno tutti. Se il virus ci costringe alla distanza sociale e se il contatto fisico è vietato, possiamo riscoprire la potenza del verbo sentire.

“E’ da distesi che si vede il cielo” così ti porto a vedere le nuvole, dal nostro balcone che mai prima d’ora era stato così calpestato. Quei bizzarri batuffoli di cotone giganteschi che cambiano forma e colore col passaggio del vento e del sole. Inventi neologismi per dare il nome al disegno che vedi nel cielo. Credo che spesso, in questi giorni, la bimba più piccola tra le 2, sia io. Stiamo sperimentando l’ignoto. Navighiamo su una zattera a forma di punto interrogativo, nel mare aperto dei “non so.”

Vivere il tempo senza lancetta.

Al bando l’ansia e il terrore di perderci qualcosa che gli altri stanno vivendo e di cui noi non possiamo goderne. Che poi, dobbiamo per forza fare qualcosa? Tra i decreti ministeriali che “lu compare Giuseppi” di cui ormai conosci ciuffetto e timbro alla perfezione, (chiamandomi da una stanza all’altra -che ora danno Conte-), non c’è l’obbligo di trasformarsi in giullari, youtubers, cantautori, artisti di strada e di cucina, mangiafuoco, Mila e Shiro casalinghi, Carlicracchi e iginiMassari,

mamme Montessoriane vs mamme Rottermeier, papàRonaldi vs papàCamionistamediocolpaninazzoelabirrozza.

Non hai imparato la poesia della festa del papà. Scusami ancora.

Ma ti ricorderò di quando hai iniziato a svegliarti da sola, a infilare ai piedi le pantofole, una volta scesa dal letto. A prendere una salviettina che ti lascio nel comodino, perché –mamma! gli occhi sono pieni di caccoline tutte appiccicose sugli occhi e non vedo la strada del bagno per lavarmi-.

Così, come un cucciolo, hai imparato a gestire i primi gesti quotidiani e a preparare il tuo corpo  con i tuoi ritmi, senza il grillo parlante che sarei io, che ti incita come Maldini in panchina, a fare presto che è tardi. Stai crescendo. E io sto avendo la sorprendente fortuna di essere testimone oculare di questo meraviglioso cambiamento. L’odore. Il tuo odore che cambia così tanto durante una giornata intera. Sai di risveglio. Di dentifricio alla fragola incrostato sulle labbra dopo aver lavato i denti inginocchiata ai piedi del bidet del bagno di papo tuo. Sai di merendine sbriciolate sul divano e di cioccolato sulla maglietta bianca. Sai di pastina al formaggino pronunciata con diecigi come lo dici tu, mangiata a intervalli regolari di ore persino. Sai di profumo che spruzzi sui polsi e poi passi sul collo dopo aver fatto il bagnetto nella vasca, immaginando di essere al mare. Abbiamo iniziato ad abitare dentro, in ogni senso figlia mia.

Aspettare non è perdere tempo. Stiamo prendendo il tempo. Lo stiamo accettando. Accettare di avere capelli con la ricrescita. Unghie rotte bicolore. Baffi da siculo ottocentesco con la coppola in testa. Possiamo persino abitare il nulla. Tu sei portatrice sana di un ritmo personale, di una melodia unica che stai imparando a suonare, in autonomia, senza spreco. Abbiamo la fortuna di sfruttare questo tempo che prendiamo per conoscere o riconoscere quello interiore. C’è chi è tempesta. C’è chi è mare calmo. Senza sensi di colpa. Senza rumore. Senza silenzio. Non dobbiamo riempire contenitori vuoti. Il vizio supremo è la superficialità. E’ da quella che vorrei abituarti a prendere le distanze. In questi giorni di quarantena hai iniziato a fare domande di una maturità sconvolgente, mentre dipingi con il foulard in testa e con gli occhiali da sole, figlia illegittima di Frida. Ci sono parole che valgono più del loro apparente significato. Sotto le lenzuola, mentre ci nascondiamo dal drago, mi viene in mente che nei bambini c’è qualcosa che li lega in modo mistico alla natura. E sei bellezza. Sei poesia. I bambini lo sanno. Lo fanno ogni sera prima di donarsi a Morfeo. Vogliono ripetere la fiaba spaventosa fino a quando conoscono il drago talmente bene da considerarlo amico.

La bellezza è cominciata quando qualcuno ha cominciato a scegliere, ha detto un premio Oscar.

Se non vi innamorate, tutto diventa morto. Così in un tempo sospeso in cui la morte è tangibile, a 4 anni, tu amore mio padroneggi con naturalezza parole come cancro e virus, mascherine e disinfettanti. Si dice che ai bambini vada  detta la verità. Ma noi berremo sempre dalle tazzine di plastica in cui tu verserai un ottimo tè inglese preparato alle 23, quando le tue pile sono scariche solo a metà e noi esponiamo fieri la freschezza degli avvoltoi di Robin Hood che cantano che va tutto bene. Ci ho provato. Ci ho provato a incastrare i mattoncini lego che odio profondamente da quando ho memoria, ma ci provo. Per te. Nonostante i miei tic facciali ad ogni incastro che non so fare e che tu sbigottita richiedi. Tu chiedi tutte le legittime attenzioni e lo fai ininterrottamente h24, persino durante la notte invochi la mia presenza ed io, come un grillo danzante, ti vengo a proteggere e mentre mi osservi, come una sentinella, mi capita a volte che io voglia solo scomparire, sparire, altrove, per qualche secondo, piangere, urlare, danzare, scrivere, restare in silenzio che non è quello fuori per strada. Poi mi riporti sulla terra e mi ricordi quello che penso e che umilmente provo a insegnarti. La bellezza salverà l’umana specie.  Mi ricordi che la vita non deve essere per forza quello che manca e che possiamo smetterla di cercare ciò che non c’è. Vorrei che il verbo “sentire” potesse diventare il tuo preferito. C’è qualcosa di immortale nell ’odore di chi si ama. Forse da questa quarantena non ne usciremo migliori, ma mi auguro però che ci sia più consapevolezza della fortuna che abbiamo. Degli abbracci che stritolano. Della pelle che strapperesti per conservare un pezzetto del volto di chi ami e portarlo in giro con te, racchiuso nello scrigno segreto del cuore. L’amore invoca la fallibilità che è quanto di più carnale e reale ci sia, in un momento surreale. Ti spoglia. Ti scioglie i travestimenti esterni. Abbatte le fortezze. Quando sarai pronta, mi auguro che tu possa dare il tuo primo bacio con gli occhi. Perché sarai di chi alza lo sguardo, di chi riesce a dirti grazie. Sarai di chi si accorge che esistono i tramonti, che a pensarci bene durano solo pochi minuti, ma che sono, giorno dopo giorno, meravigliosamente unici. Sarai di chi disegna il tuo volto e lo dipinge con quel tocco che adesso ci è interdetto. Sarai pronta a donare il tuo essere poesia quando sentirai che la tua anima si accartoccia e sembrerà morire in preda alla mancanza. Quando sentirai, appunto, che c’è solo un luogo in cui il tuo respiro è sospeso, restando senza fiato, nemica di un tempo a cui chiedi di fermarsi, racchiuso nell’astuccio di un abbraccio. Senza fretta, un giorno, quando meno te l’aspetti, troverai l’ultimo pezzo del puzzle, il gheriglio di noce perfetto, la persona con cui sarai casa, ti sentirai casa e sarai a casa; la conchiglia più rara tra le centinaia insabbiate; l’aforisma più originale. Sarai di chi conoscerà il sapore delle tue lacrime, che asciuga con teneri baci sulle ciglia folte e bellissime che hai. Quando troverai verità nella bellezza del tempo che non è mai perso, mai sprecato ma regalato, mentre brilli con quegli occhi grandi che si illuminano al solo pensiero di aver trovato qualcosa che non ha copie. Sarai meravigliosa bufera. Sarai pioggia di luce sotto cui danzerai. Sarai di chi conosce ogni tratto di te eppure si stupisce ogni volta della bellezza che indossi. Di chi ti chiede come stai, più volte al giorno e si aspetta una risposta cruda e persino crudele, perché la quotidianità può essere cattiva con te. Di chi piange con te e per te. C’è qualcosa di sacro nelle lacrime versate con qualcuno che ami, che a sorridere siamo bravi tutti. Sarai di chi si nutre del tuo sorriso e ha sete di verità dai tuoi occhi stregati. Di chi è in grado di lucidare le tue gigantesche ali ma ti afferra con le radici di un ulivo secolare.  E non importa, amore della mamma, se sarà per sempre come nelle favole oppure no.

Avrai scritto la favola più importante della tua vita, perché avrai rischiato ad essere felice; avrai avuto coraggio; avrai lottato; è per M’illumino di immenso che Ungaretti ha fatto storia. Non importa la durata. Ti sarai sentita intera. Incanto e disperazione. Quando l’Amore si sdraia sulla tua schiena, non lo vedi, ma lo senti. E’ quel profumo che riconosceresti tra mille. Quel tocco che sa di magia. Il tempo, sempre lui, si ferma nel preciso istante in cui sussurri, nell’abbraccio più intimo: sei la mia vita e lascerai che quella vita di cui fai parte veda il pezzo più luminoso e a volte accecante e l’oscurità più profonda che ti porti dentro.

Siamo nati per rinascere ogni giorno.

 Allora forse non saremo migliori dopo la quarantena, ma spero che alla consapevolezza segua anche meno indifferenza.

Potremo assomigliare ai gesti che ripetiamo nelle ore di distanza sociale, di socialità interdetta come dicono quelli bravi. L’amore è un sentimento che è pace tra le bombe. Forse inizieremo a parlare con il silenzio dopo che lo avremo ascoltato per giorni. Saremo pronti a scavare tra le macerie di ciò che abbiamo vissuto e capiremo che la nostra unica opportunità è quella di riconoscere la felicità, quella tenera forza che ha la potenza del fuoco, perché in fondo siamo ancora vivi, storti, rotti, travolti e stravolti, meno lucidi, più vuoti o più saturi, ma forse non rinunceremo alle meravigliose sfumature che dipingono l’esistenza. Tutto è possibile. Come è possibile che un virus abbatta le porte delle nostre case, così è possibile che si possa mandarlo via a calci. Forse appenderemo la pesantezza e ci vestiremo di una leggerezza che, come diceva Calvino, non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore. Per rispetto alla morte che non ci ha toccato e alla vita che ci ha scelto, per rispetto di coloro che restano dopo aver perso qualcuno senza neppure salutarlo per l’ultima volta, potremo metterci in discussione. Porci delle domande. Su ciò che ci fa soffocare, perdere il sonno, ingoiare gusti amari. Forse, quando tutto questo sarà finito, non tutti avremo voglia di abbracciare il mondo con impeto. Forse qualcuno vorrà trovare la propria dimensione, in solitudine, quella reale, facendo i conti con un costo psicologico enorme, poiché avremmo pure avuto una agenda in quarantena pregna di videochiamate, incontri virtuali, sedute zen e yoga, lezioni di dizione o di come fare il lievito madre, ma ne usciremo diversi. Non saremo santi, neppure puri e neppure radicalmente migliori. Forse anche meno gentili o più tristi. Non lo so cosa saremo amore mio.

Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro che sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato. Murakami ha ragione da vendere.

Te lo ripeto, io non so nulla della vita, ma una cosa l’ho imparata e me l’ha insegnata quella tipa messicana che imiti mentre dipingi.

Non come chi vince sempre, ma come chi non si arrende mai!

Ma per una volta sarà stato bello persino vincere, tutti insieme, non contro qualcosa ma per qualcuno.

E il mondo sarà davvero cambiato! Perché avrà piovuto luce!

Pioverà luce e ci inzupperemo…

05 Ott

Capitolo 34. L’età ibrida.

“Nonna, io non voglio che la mia mamma sia triste”.

La più profonda, impulsiva, pura e allo stesso tempo egoistica dichiarazione d’amore che mi potessero fare a pochi passi dai 34 anni, è arrivata da mia figlia, una mattina di agosto, quando il sole giocava a deformare le ombre sull’acqua verde-cobalto-tiffany di Porto Cesareo, mentre l’estate era una vecchietta arzilla che gioca a bridge e beve Martini.

Serve una grande quantità di immaginazione per capire la realtà e Arya, la mostriciattola dai capelli miele, una mattina di agosto ha compreso bene che anche le mamme possono essere strani esseri dagli occhi che assomigliano a pozzanghere come quelle di Peppa Pig.

In questa mia età ibrida, chediciamocelatutta, i 34 sono come i 15, i 26, un po’ carne e un po’ pesce, un po’ ristorante-pizzeria dove ti trovi a mangiare senza infamia e senza lode, un po’ come quando in autunno cadono le foglie, le caldarroste ti fissano da lontano ma tu hai ancora i teli mare in borsa, in questi 34 anni credo di non aver capito una beata ceppazza di ceppa riguardo a quel vortice libidinoso che chiamiamo vita.

Ma di una cosa credo di essere certa: la tristezza è necessaria così come è imprescindibile che i nostri figli possano leggerla sul volto di noi genitori, senza vergogna e senza turbamenti.

Si possono e si devono cercare vie d’uscita al dolore e per fare questo, occorre attraversarlo, nominarlo, scrutarlo, guardarlo da vicino e da dentro, raccontarlo tutto quanto, fino all’ultima parola, fino all’ultima goccia.  I bimbi sono persone, di statura estremamente bassa, ma persone. Ti costringono a dare un nome a quello che vorresti non dire entrando nel regno proibito del tuo Io, generando quel tumulto di sentimenti che invano provi a domare. 

Per lunghi anni sono rimasta in compagnia dell’idea di ciò che poteva non esserci più e di quello che non c’è, con l’illusione che bastassero ordine e dovere e binari già segnati, tanto c’è sempre tempo per vivere di ciò che bramiamo, ostinata a cercare un senso e un tempo che odia l’improvvisazione, il tempo che è speso a tenere stretto l’alone, l’ombra, il profumo.

“Le nostre paure sono draghi a guardia dei nostri più profondi tesori”.  L’ho letto una volta nelle mie bracciate nel mare aperto degli aforismi. Così tutti noi dovremmo avere la capacità insita di trasformare in forza la nostra debolezza. Mi sento un ramo che si immaginava forte ma che ha ceduto quando meno se l’aspettava.  Ho atteso troppo ciò che non c’è e ciò che manca, dimenticandomi di provare ad essere ciò che sento nel tempo in cui vivo.  Ora.  A 34 anni è giunto il momento di capire che quando uno cade fa meno fatica se  tende una mano e afferra stretta quella salvifica. Che nessuno si salva da solo già lo sappiamo, ma scegliere da chi e da cosa e con chi farlo è un capitolo da scrivere.  A volte mi chiedo perché dovrei avere paura smisurata della morte visto che non c’è più morte dopo la morte e che non potrò mai sapere se ci sia qualcosa di più pauroso assai di questo e alla domanda rispondo che dovrei fare amicizia con questo concetto, come quando Arya scioglie le briglie della timidezza misto studio clinico della personalità altrui e prende per mano un bimbo incontrato due minuti prima, dichiarandogli amicizia eterna.  

Non voglio che la mamma sia triste. Da quando abbiamo incasellato e stereotipato la tristezza, rifiutando bruscamente persino di nominarla come fosse sinonimo di morte interiore? I bimbi non conoscono i nomi delle loro emozioni e quando sono piccoli piangono a prescindere, nel bene e nel male loro piangono. Se ci pensiamo, piangiamo da quando veniamo al mondo, la prima espressione verbale, il primo sentimento, la prima forma di liberazione e libertà è avvenuta tramite ciò che invece adesso tendiamo a celare, dissacrare, cancellare.

La mamma, cara Cosetta, mostriciattola dai capelli miele, vorrebbe tanto lottare contro i kakamora dell’anima sua, i piccoli pirati guerrieri di noci di cocco, dalle facce spaventosamente buffe. Muti, comunicano battendosi il petto a ritmo. Tutte le volte che vediamo Oceania/Moana, tutte le trilionesime di volte, resto ammaliata dal coraggio puro e autentico di Vaiana, dalla prontezza che ha avuto nel partire in compagnia di un pollo per affrontare l’Oceano e trovare Maui, il semidio.

 Ci vuole coraggio ad avere coraggio. Ci vuole coraggio a guardare in faccia i kakamora dell’anima mia per accorgersi che il vero vulcano esploso sia io.  Una bomba di lava. Magma. Colate dagli effetti devastanti.  Esplosiva ed effusiva insieme.

L’età ibrida si porta dietro la consapevolezza che la felicità sia estremamente sopravvalutata, assolutizzata, estremizzata, santificata a tal punto che è quasi sempre impossibile stringerla forte.

Falsifichiamo la realtà modellandola come la plastilina, copiando la forma di disegni già abbozzati da altri.

La felicità. Se non la provi, se non la ricerchi, se non la trovi, non ha senso vivere. È questo ciò che ci insegnano, ci propinano, ci costringono a sospettare.

A 34 anni voglio sottovalutare quella parola accentata. Voglio valutare altri tipi di sentimenti , ponderarli, invitarli a cena e chiacchierare con loro.

A 34 anni voglio inventare il sentimento della LUMINOSITA’. Tutti dovremmo essere pervasi dal fascio di luce luminoso in un momento della quotidianità e sentirci immensamente luminosi.

Mi illumino di immenso. Sublime forma di amore che ci è stata donata, se solo riuscissimo a catturare, ricevere, diffondere e utilizzare la luce delle cose animate e inanimate.

Una torcia fiammeggiante nel cammino oscuro dell’anima. L’età ibrida mi ha donato la capacità di imbarazzarmi davanti alla mia stessa cattiveria, di vergognarmi con estremo pudore del mio egoismo, di riflettermi allo specchio deformante della bruttezza dell’anima mia, con gli occhi neri di rabbia e silenzi assordanti che immobilizzano.

Questa età né carne né pesce mi ha regalato la consapevolezza che dove c’è luce c’è indissolubilmente anche ombra. A 34 anni sogno di sentirmi un libro di Arya dell’età della lallazione. Pochissime parole ma piena di colori. Non ho ancora capito come usare tutte le tonalità. Da tempo ho acquistato l’astuccio triplo maxi in offerta, quello più assortito, eppure la maggior parte dei colori sono rimasti intrappolati nell’elastico.

Tutto è filato più o meno dritto, fino a quando ho desiderato di non essere più una farfalla travestita da baco ma un baco vero. Da qualche parte, nel mio corpo covavo quel tipo di stati d’animo che ti consumano piano piano, internamente, come un morbo di cui non puoi informare nessuno perché altrimenti crolla tutto ma quell’abbozzo di mostro è sottopelle, come il “demo gorgone” di Stranger things, perché sì, di cose strane si tratta. La normalità non mi piace. La stranezza è il mio humus famigliare, mentre riconquistiamo il terreno che ci è stato espropriato, con ardente necessità di sopravvivenza, resistenza e la voglia matta di rimanere umani in situazioni difficili, persino quando il cuore diventava stagno, quando la solitudine causata dall’oscurità delle cose perdute, delle cose ricevute e di quelle abbandonate ti fanno precipitare nel tunnel dell’idiozia. Quella stranezza mi ha salvata, ha messo il corsivo sulla vita che è più forte di tutto. Sempre. Nella nostra carne abbiamo un sacrosanto compito: vivere.

Mi è stato insegnato che la purezza è negli occhi di chi guarda, come la stranezza a dirla tutta.

Mi è stato insegnato a non scusarmi sempre, ma a provare a dire grazie e sentirmi meno in colpa se ricevo molto più di quello che dono. Non voglio più accontentarmi di essere una pianta grassa, di crescere senza dare disturbo a coloro che amo, con un goccio d’acqua al ricordo e la luce naturale.

Diceva un foglio bianco come la neve: ‘Sono stato creato puro, e voglio rimanere così per sempre. Preferirei essere bruciato e finire in cenere che essere preda delle tenebre e venir toccato da ciò che è impuro.’ Una boccetta di inchiostro sentì ciò che il foglio diceva, e rise nel suo cuore scuro, ma non osò mai avvicinarsi. Sentirono le matite multicolori, ma anch’esse non gli si accostarono mai. E il foglio bianco come la neve rimase puro e casto per sempre – puro e casto – ma vuoto.

(Khalil Gibran) 

A 34 anni dico no al colesterolo, agli acidi ialuronici e alla trappola della purezza.

Voglio strappare quel foglio bianco come la neve rimasto puro per sempre e soprattutto vuoto.

Voglio essere fotografia a colori. Tutti i colori che esistono nel triplo maxi astuccio assortito. Tutti quanti. E’ in questa vita che siamo umani. E’ in questa vita che ho bisogno di sentire, urlare, restare in silenzio, piangere, ridere, dare, ricevere troppo senza imbarazzanti paturnie psicosomatiche, perdermi, trovarmi, essere trovata, essere ritrovata, cercata, voluta, desiderata e desiderare, amare, fare l’amore fino a quando le lancette diventano liquide, il tempo si scioglie, il mondo fuori non esiste, le stagioni si alternano e io leggera, stretta e protetta in un abbraccio che sa di infinito, nella più carnale essenza dell’essere umano, appunto.

Luminosità. Ad Arya farò inserire il grassetto a questo concetto. A sorprendersi per uno spicchio di luna dipinta dalla realtà nel cielo nero della notte; a commuoversi di fronte ad una palla infuocata che lentamente si immerge nel blu di acque cristalline; di nutrirsi di sorrisi condivisi, quelli che disegnano rughe sul volto, serrano gli occhi perché la luce che vi dimora quando si ride col cuore è troppo pura per il mondo esterno e va tutelata con l’anima e il battito del cuore. Gli occhi nascondono tutto e proteggono ogni cosa. Si illuminano quando si accorgono di essere testimoni della perfezione che la natura ha creato per noi, in una giornata di sole inaspettato, quando il silenzio è solo per orecchi pigri, ma tutto intorno è vivo e finalmente lo sei anche tu, vivo come lo scoglio che si asciuga a metà, il turista che si sorprende della rara bellezza che gli si apre dinanzi, come un sipario sul palcoscenico della più geniale opera d’autore, mentre il mare si conferma il tuo migliore amico e ti porge un saluto, chiamandoti a sé, anche se l’acqua è fredda e ci sei solo tu a nuotare, protagonista della storia più bizzarra che potessi scrivere. Luminoso è il tempo in cui ti imbatti in un paguro dalla casa maestosa e ti immagini tu stessa paguro.

Breve pausa – momento Alberto Angela-

Lo sapete che questi crostacei vivono portandosi dietro la propria conchiglia e quando crescono o incontrano nel proprio cammino una casa piùmiglioreassai, abbandonano la vecchia e si rifugiano in quella nuova, soprattutto nel momento di maggior pericolo? Io l’ho scoperto un giorno in cui ho abbandonato le mie armature e ho riso e pianto nello stesso istante, un giorno in cui sono stata musica, canzoni, testi, parole, cappello, cielo, azzurro, verde, blu, rosso sangue, un giorno in cui ho cercato di comprendere che i nostri figli non ci appartengono e la loro vita va attraversata come una strada con due marciapiedi vicini vicini ma con una spessa fessura.

A 34 anni continuo a pensare che Arya sia il libro più antico che potessi mai trovare, nel luogo più sacro e di estrema rarità. Intanto io sono labirinto, intricato ma colmo di peonie e tulipani, quando credi di essere alla fine ti ritrovi all’inizio della ricerca, con lo stesso bisogno platonico, con le vecchie e le nuove fragilità ma tanta musica e luce, famelica voglia di accartocciare gli occhi e trasformare la bocca in uno spicchio di limone.

Spesso l’uscita, la mia uscita è l’entrata in una sala di danza, il mio mondo perfetto, dove posso cadere, fallire, provare e riprovare e ancora fallire, esagerare, drammatizzare e sdrammatizzare, portare agli estremi corpo e anima mia, sentire la terra, bruciare e volare insieme, improvvisare e attenersi alla lettera agli esercizi.  Quando danzo non sono più una macchina, nessuna maschera, nessun senso di colpa, nessun desiderio di protezione, nessuna felicità falsata dalla felicità altrui, dimentico il mio nome e mi illumino senza che questo implichi sofferenza per nessuno, ma luce solo per me. Quando danzo il labirinto diventa un giardino segreto in cui dimorano le specie più delicate e originali. Si possono scombinare i piani, mettere accenti, farsi male, tatuarsi le note sui piedi e renderle animate con la magia di un passo, uguale per tutti, ma straordinariamente diverso per lo stile e l’intensità. Speciale.

Mamma, vorrei che tu facessi la festa dei gonfiabili per il tuo compleanno.

Arya ma la mamma è grande per questo tipo di feste, lo sai?

No, non lo sei, perché tutti possono divertirsi e salire sui gonfiabili, grandi e piccoli e io voglio che la tua festa sia bella perché tu sei bellissima.

Hai ragione, sai? Come sempre.

Voglio salire sul gonfiabile più alto e colorato che ci sia, chiudere gli occhi, salvare un pezzo di cuore, allontanare le paure e cadere giù, senza fretta, sentirmi viva ad ogni pezzo di pelle che scivola e odora di luce.

16 Lug

“SII REALISTA! CHIEDI L’IMPOSSIBILE”

Qualche giorno fa mi capitò di leggere una frase:

“Si vive con la speranza di arrivare ad essere un ricordo” e subito dopo l’occhio abbracciò un altro aforisma, di uno che insomma, di aforismi se ne intende: “Vivere è la cosa più rara del mondo. La maggior parte della gente esiste, e questo è tutto” – O. Wilde.

E mi sei venuto in mente tu.

Per 4 volte lo scirocco, umido, pesante, sfiancante ha portato con sé il 16 luglio.

Abbiamo smesso di cercare il senso. Da quando è scoppiata la morte, ho acceso una gigantesca miccia di voglia di vita. Io ti vedo. Sei lì, a sorseggiare il tuo ghiacciato mojito ne La Bodeguita, a la Habana Vieja.

Indossi i tuoi rayban , la barbetta incolta, la fede al dito, un signor sigaro in bocca e le mani sul tavolino riproducono i suoni della musica cubana che il bar propone.

Sei invisibile. Ma non assente. Sei vento.

Sei la luce tra le nuvole dopo la pioggia estiva.

Sei il signor silenzio.

Sei il mare a cui ho rivolto il mio sguardo nei giorni della tua malattia. All’alba. Arya cresceva nella mia pancia, come cresceva un dolore che ho accarezzato, come se non fosse mio nemico. Quell’ acqua mi cullava, come ho imparato a fare con mia figlia e come ha fatto la mamma con te, prima che la morte ti rapisse e ti portasse in quel posto di luce, colori, suoni e bellezza, da cui ci osservi e ci proteggi.

Aveva ragione Platone, sai? Siamo tutti Immortali nella misura in cui i ricordi infuocano l’animo di chi resta.

Così sei immortale, poiché conosco l’amore puro e incondizionato di un padre a cui poco importava se quella fosse la figlia nata grazie al suo pisellino.

Mi hai amata, senza se e senza ma. Senza preoccuparti che il mio cognome fosse diverso dal tuo.

Mi hai insegnato a cercarmi tra le righe di un libro ma al contempo, mi hai spinto a scrivere il romanzo della mia vita, offrendomi costantemente gli strumenti per mettere tutto nero su bianco, a mio modo.

Poiché il più grande segno che profuma di egoismo da parte dei genitori è la loro imposizione sui figli, a vivere come i primi desiderano vivere.

Invece tu vento, hai reso carne il verbo tentare, seguito da fallire. Non importava per te.

Si poteva fallire, anche meglio, sempre di più. L’importante  era rischiare, lavorare duramente, tenacemente, sino a notte fonda, sino a quando gli occhi chiudevano le serrature della concentrazione e i polsi impietriti dall’uso del mouse sventolavano bandiera bianca e poi, abbracciare il meritato riposo svegliandoci all’alba, pronti per un’avventura,  on the road.

4 estati fa abbiamo capito che la cosa più terribile che potesse capitarci fosse quella di voltare le spalle alla paura, stringendo gli occhi sino a farci male, pur di non vederla.

Non abbiamo permesso alla morte di consegnare la cosa più preziosa che abbiamo ad alcuno.

Persino quando non eri tu la persona a cui era collegato il concetto di lasciarci per sempre fisicamente.

Non c’è idea cui non si finisce per fare abitudine. Così ci siamo sporcati, noi 5 superstiti e abbiamo corso.

Poi fermati, insanguinati, abbiamo masticato il miele e la cera, abbiamo sputato rabbia, ingoiato false promesse, aiuti decantati e mai giunti, incomprensioni. Siamo ripartiti, contro il tempo e per il tempo.

Ci hai insegnato, a tutte noi, le donne della tua vita, che le parole sono importanti a tal punto che ad ogni parola corrisponde un’azione e reazione. Se dico che non so fare qualcosa, mi assale il tuo ricordo che si fa presenza nell’azione che andrò a compiere, annullando la pigrizia e rispondendo alla silenziosa domanda che mi avresti posto: sei sicura di non saperlo fare, se non ti sei mai avvicinata al problema per risolverlo? Ci hai mai provato prima di pronunciarti al negativo?

La nostra vita ha reso possibile credere a qualsiasi cosa, soprattutto a quelle incredibili.

Siamo pozzi riempiti pregni di acqua del tuo amore e sapere.

Il laboratorio della nostra memoria è sempre a lavoro. Il dolore non è più necessario. Abbiamo smesso di accusare il destino che ha giocato una brutta partita con noi. Ci stiamo incontrando nel ricordo, come quando nella sala studio mi venivi a bussare, chiedendomi per favore di smetterla di svegliarmi così presto per studiare, che avrei potuto prendermi una pausa, che non era sano ciò che facevo, che mi avrebbe spento piano piano, che un 9 al compito di storia o un 30 all’ esame di diritto erano importanti certo, ti inorgoglivano, ma lo era di più l’attitudine al rischio, a pretendere ciò che meritavo, a far sentire la mia voce.  Ci hai insegnato a difendere la nostra spontaneità e nello stesso tempo a non farla schiacciare da nessuno. Ci hai dimostrato che occorre perdersi per trovare percorsi migliori, come quando litigavi spesso con la mamma sul percorso stradale o raccontavi la storia di Gesù per arrivare ai tempi moderni.

Senza accorgercene, senza premeditazione, ognuno di noi ha preso il tuo posto, in alcune delle cose che eri solito fare per noi.

Sei nel caffè. Lo bevo senza zucchero per assaporarne l’aroma, come facevi tu.

Tua figlia la menzana e tuo genero l’ingegnere,  lo preparano nelle occasioni di riunioni famigliari o agli ospiti di casa.

Sei nelle favole che raccontiamo ad Arya, accompagnandola nel mondo della fantasia e delle emozioni, donandole quel tempo prezioso che tu hai fortemente voluto ritagliarti per noi.

Sei nella Toyota Rav, nel suono del suo clacson, nella cintura che allacciavi con una mano già al volante, mentre eri in moto e che mi dava un fastidio esagerato.

Sei nella fermezza della piccola Chiara.

Nel suo amore per la scienza, per la logica, per la risoluzione del problema a tutti i costi.

Sei in Andrea, nelle sue espressioni facciali, nel suo modo di affrontare la solitudine, nella sua bravura ad orientarsi nei percorsi che la vita ha delineato per lei o che ha disegnato sulla sua mappa.

Stanno crescendo divinamente. Le cicatrici le hanno rese decisamente più donne e nello stesso più bimbe e sono certa che sia merito anche tuo, della persona che sei stata, non solo come padre ma come uomo e dello stile di vita dignitoso che ci hai donato.

Sei nelle mie passioni che odorano di ossessione, tutte.  Sei nella danza, tu primo tra tutti a credere più di me stessa che fosse arrivato il momento di chiamare per nome questa passione, di darle forma,   di non arrendermi di fronte ad un rimorso dell’incompiuto, come una melodia lasciata a metà, un pianoforte senza diesis.

Sei nella reflex, nella voglia di offrirmi l’arte a portata di mano, per sfruttare le mie capacità. Per guardare il mondo con i miei occhi e renderlo immortale a mio modo, con uno scatto senza tempo e spazio.

Sei nei biglietti di viaggio, nella scoperta di nuove culture, nel confronto, nella voglia di sentirsi sempre viaggiatore e mai turista.

Sei nelle espressioni verbali che qualche volta proferisce “marito”.

Poi c’è la mamma.

Ci siamo illusi e arrogati il diritto di non essere al suo fianco, ma di essere il suo fianco, di essere le  parti mancanti del suo corpo, di essere la sua medicina e di contarle le pillole.

Il tempo ha strappato i falsi super poteri e ha reso visibile la realtà che chiede l’impossibile e noi ce la mettiamo tutta.

E’ lei l’ “impossibile” su due gambette che cammina goffamente ma a schiena drittissima e testa ancora più su.

Ci sono quei periodi dell’anno in cui mi assale l’insensata voglia di abbattimento della struttura emotiva che mi pervade per mesi,  e mi lascio dondolare, seduta sull’altalena dei ricordi.

Così realizzo quanto sia facile e apparentemente figo sentirsi come una matita dalla punta sempre temperata in un barattolo di matite senza punta.

Ma con uno sguardo più attento e profondo ci accorgeremo che quest’ultime hanno scritto, disegnato, riscritto, miscela di grafite e argilla, grezze, spesse, che diventano di nuovo vergini, pronte a lasciare un nuovo segno, a sporcare le mani di nero, pregne di carbone.

Forse lei, la tua lei, non è mai stata la matita dalla punta sempre perfetta, e sinceramente, esclamerei, “che culo!”

A tua nipote ripeto come un mantra:

Fa che la tua vita non sia un’edizione economica. Rendila un capolavoro, un’edizione limitata, una carta pregiata su cui disegnare opere d’arte, perché ogni mattina al suono della sveglia, imporrai a te stesso di fare qualcosa che ti spaventa, scoprendo l’infinito e l’infinitamente piccolo che risiede in noi, decidendo cosa fare col tempo che ci viene donato.

Come diceva il maestro con cui ho iniziato a scriverti, il “tipo degli aforismi”:

“Giocare con il fuoco ha il vantaggio di non farci scottare mai. Si scottano solo coloro che con il fuoco non sanno giocare”.

Ora ti lascio gustare il tuo mojito. Saziarti di tramonti. Cibarti di musica. Vestirti delle nostre anime che si spogliano davanti ai ricordi indissolubili e ti rendono mito.