Warning: Trying to access array offset on value of type bool in /home/customer/www/marideleo.com/public_html/wp-content/themes/fruitful/functions.php on line 577
06 Ott

32. UN NUMERO FIGO!

Mi attira la rotondità del numero. Che poi io e la rotondità siamo sempre in conflitto, odio e amore indissolubile, ma resta il fatto che, oh, sto 32 inizia a piacermi.

I 30 sono arrivati così, senza avere né arte né parte, quasi sapessero che in quel momento e Da quel momento, non sarei più stata SOLO io, la protagonista indiscussa della mia vita, ma avrei abbracciato la mia anima sentendo il battito del suo cuoricino, avrei ascoltato il suono del silenzio perdendomi nei suoi occhi, il perfetto mix tra i miei e quelli del padre.

Sono passati 2 anni da quei 30 assurdi e meravigliosi al tempo stesso.

Cosa sono riuscita a compiere?

C’è una certezza incredibile e gigantesca che aleggia sulla mia vita da quando, nei magnifici 30, ho dato alla luce mia figlia: il grappolino di emorroidi è lì, sempre fresco e pronto come le insalatissime RioMare;

Mi ricorda che a spingere so’ bravi tutti, ma vuoi mettere un ricordo indelebile ogniqualvolta il bisogno chiami?

L’altra faccia della medaglia di bronzo è che, a detta del mio stupendo marito, quella cosa lì, il tubero da cui è spuntata la sua ragione di vita, tagliato e cucito come un pesce fuor d’acqua, grazie alle mani laboriose di ostetrica e ginecologa, pare sia tornato alle origini. Applausi scroscianti!

E poi, poi c’è quella pazzerella di mia madre che tenta di morire in tutti i modi possibili, reali e irreali.

La vecchina vestita di nero, col naso brufoloso e gli occhi all’infuori, porge senza sosta il frutto rotondo dal rosso color, che poi non ha ancora compreso che mi madre, la Biancaneve del Salento, è una che “tiene i picci” con la frutta. La mela, per lei, deve fare “tra tra”, succosa ma acerba allo stesso tempo, meglio se della famiglia Melinda, e non tutte sono uguali, invero. Quindi, Grimilde cara, strega del mio cuor, è proprio difficile che colei a cui porgi il bellissimo frutto, possa cadere nel sonno profondo. Tra l’altro, non ha più neppure le fattezze di Biancaneve, che ce la siamo trovata dall’oggi al domani, al rientro dalla terapia al “norde”, come un riccio brizzolato, come la spugna

che si usa per sgrassare l’olio dalle pentole dopo che cucina la nonna, che poi è pure utile questa tosatura, metti che hai bisogno di grattarti per un attacco improvviso di allergia, usi la capoccia della mamma per godere. E diciamolo pure ad alta voce, il cancro bacia i belli.

Uno brutto brutto, ma proprio brutto “mancu li cani”, non potrebbe permettersi un look total nude alla capoccia. Il cancro fa risaltare gli occhi, verdi, cangianti.

Che pure mia figlia, non ancora duenne, l’ha capita, ha approvato questo make up da artista.

Arya fa l’assistente mentre curiamo le ferite, conosce perfettamente dove si trovi la bua della nonna e la ragione per cui per 2 mesi non l’abbia potuta prendere in braccio. A lei non importa se la nonna ha 2 seni grandi come meloni retati o 2 cicatrici enormi e sanguinanti, al limite del vomitevole se si hanno stomaci delicati, se ha i capelli color fata turchina o se sfoggia turbanti come fosse la regina del Sahara. A lei, importa che ci sia.

In questi 2 anni, ma a dirla tutta, da molto e molto tempo addietro, mi si chiede come mai io abbia sempre il sorriso sulla bocca e soprattutto negli occhi.

Me lo chiedono in tanti. E rispondo:

Io non so fare che questo. Sorrido perché non saprei fare altrimenti.

Perché credo che la piuma batta un masso, perché la pesantezza si contrasta con la leggerezza, perché sono terrorizzata dalla morte.

Avete presente quando bevete qualcosa di molto freddo e vi si ghiaccia letteralmente il cervello?

Questa è la sensazione che provo io almeno una volta al giorno, quando penso alla morte. Cado in trappola, immobile, il respiro diventa affannoso e gli occhi si purificano.

E piango.

Eh no, non sono affatto infelice.

Come diceva Seneca, “un uomo è infelice quando convince se stesso di esserlo”.

Ogni vita che vivo da quando il sole sorge, lotta con il terrore che qualcuno che amo possa non esserci più. Potrei restarmene lì, seduta, terrorizzata, lì dove sono quando ci penso, potrei essere pietra, tavolo, pianta, dentifricio. Per abitudine. Ma non sarei più quella che sono.

Non ci sono solo lapidi. Non c’è solo paura. Ci sono quei noiosi gesti tangibili che ci ricordano di quanto sia salvifico provare emozioni, essere sangue e carne che scorre, nonostante tutto. E io sono questa moltitudine di emozioni. Rido di gusto. Con gli occhi.

Rido con i piedi quando danzo.  Resta visibile la mia anima, potente, infuocata, che si dimena e taglia le braccia, le mani, le scapole. E’ questo il momento di pura estasi che ognuno, a modo suo, dovrebbe vivere. Non tanto per dimenticare ma per ricordare che c’è, esiste, come essere pensante, come essere che dimora in questo mondo e non in altre dimensioni a cui anelare. Sentirsi. Nel bene e nel male.

 

A sentire e ad accettare lo schiaffo dietro al collo quando meno te l’aspetti. Chi l’ha detto che la normalità non sia ridere delle proprie stranezze, dei disagi che la vita offre costantemente. Chi l’ha detto che ci sia l’obbligo di trovare quiete al disordine totalizzante che si immagazzina?

Ci assomigliamo tutti quando siamo felici.

Quando uno è infelice lo è a modo suo, mi pare di aver letto una volta.

Così ecco alcune cose che mi auguro per questi miei 32 anni:

Mi auguro di avere ricordi di giorni diversi, di notti strane con mio marito e mia figlia, di piedi in faccia e capocciate al buio, mai uguali, senza l’affanno di cercare la specialità in tutto questo, ma l’unicità.

Mi auguro di restare, di saper dimenticare senza cattiveria, di avere pazienza quando sento esclamare la frase più bella dell’universo: “ti capisco, immagino” ma non immaginano proprio un bel niente, ma è giusto che sia così, perché ciascuno vive a modo suo le sue felicità e i suoi dolori, quando un raffreddore è la morte nera che incombe, quando la fidanzata ci ha lasciati, quando l’abito dei sogni era in saldo ma l’ultimo pezzo, perché è la vita di tutti e di nessuno e non si può pretendere che l’unicità sia massificante e che la massa sia sinonimo di bruttezza. Chi è religioso dice che ognuno ha le proprie croci.

 

 

poiché mi reputo estremamente fortunata, nata in una famiglia tutto sommato benestante, da una donna che ci ha insegnato il profondo valore del denaro.

In fondo, le cose stanno esattamente così.

L’avversità è l’opportunità della virtù!

Ma al tempo stesso mi auguro di non vivere i miei giorni come se fossero sempre gli ultimi, con l’insostenibile ansia da prestazione di una vita perfetta ma mai vissuta.

Mi auguro di provare meno rabbia ma di far sentire la mia voce nelle ingiustizie.

Mi auguro di essere più tollerante ma di non tollerare la maleducazione.

Mi auguro di meritarmi le amicizie che ho e quelle che ancora non ho ma che spero albergheranno nel mio cuore e nei miei sguardi e voglio  meritarle sempre, costantemente, senza il rischio di perderle ogni giorno se contraddette.

Mi auguro di essere l’amica che c’è quando è opportuno esserci; restare invisibile quando il nero abbaglia; di donare tempo prezioso che bacia la qualità; di restare in silenzio facendo la migliore chiacchierata con gli occhi checonosci e ami, conservando intatta in me la convinzione che sacra è l’amicizia quanto l’amore che, come dico sempre, tutto muove.

Mi auguro di essere anche io l’amica a cui si dona amore, nella similitudine e nella diversità più profonda delle vite che scegliamo di vivere.

Mi auguro di guardare i documentari sull’anoressia ed esclamare ironicamente: “ormai sono troppo vecchia per queste cose”: osservo i protagonisti come spettatrice speciale, mi pongo incredibilmente e straordinariamente a debita distanza da quel tunnel maledetto di morte e assurdità che non voglio più percorrere, anche se a fatica e senza ipocrisie.

Mi auguro di essere più coraggiosa nelle scelte e rivoluzionaria con me stessa, accettandomi per la persona che sono.

Mi auguro di passare da quella che “sono” a quello che “faccio” quando le 2 cose combaciano, perché il tempo dei rimpianti è sepolto.

 

 

 

 

 

14 Giu

PASSEROTTO NON ANDARE VIA…O FORSE ANCHE SI

Mi ero illusa che col passare dei giorni gestire la schiacciatina sarebbe stato più semplice, perché si sa, passata la fase coliche * (ricorda: dicesi fase coliche quando si grida al miracolo per una  scorreggia puzzolente neppure si fosse nutrita di sole rape nfucate e si stappa la bottiglia di vero champagne  per l’avvenuta evacuazione spontanea e non agevolata da magiche pompette. Che Dio abbia in gloria Carlo Erba!) pare sia tutto in discesa. Pare.

Ma pare che invece la mostriciattola abbia deciso di unire la fase coliche a quella  di “dentizione”, che per quanto tempo ce li ha sfracellati con pianti isterici e metamorfosi da lama, adducendo nervosismi vari ed eventuali al dolore in bocca, a quest’ora avrebbe potuto vantare una stupenda e funzionale dentiera da uomo di Neanderthal e gustare succulente bistecche al sangue (non me ne vogliano i vegani).

I neonati sono furbi, furbissimi e anche paraculi e indovini.

All’arrivo dell’altra fondamentale fase dello svezzamento, si attaccano a ventosa alle tette, mostrando una voracità mai avuta nei 5 mesi precedenti e una mostruosa morbosità da crisi di abbandono, che si potrebbe prenotare già un lettino in analisi.

E ti illudi, sciocca, che con la loro breve autonomia della crescita possano lasciarti libera e felice di vagare nei campi della toiletta, per godere di una meritata minzione trattenuta ore ed ore, con sconfinata pazienza, nell’attesa che i suoi teneri occhi da cerbiatta vengano cullati dallo sconosciuto Morfeo e sei lì, in piedi  , con la vescica e il perineo uniti in matrimonio, avvinghiati l’una all’altro nella prima notte di nozze, con le braccia che simulano una dolce passeggiata e scendono negli abissi della tanto odiata carrozzina, (manco fossi Tom Cruise in Mission Impossibile) e trattieni il respiro mentre lei sospira, perché dai, povera idiota di madre, in fondo conosci a menadito il copione: ti trasformerai in Pietro Mennea correndo verso il cesso ma io, che sono più veloce e furba di te, piangerò la sorte mia e ti costringerò a prendermi in braccio e a condurmi insieme a te nel fantabosco del cesso. E così abbassi le braghe con la mano sinistra mentre con la destra sorreggi il diavolo di tua figlia, fiera di averla vinta, la sua battaglia, e ti siedi sulla ceramica, mentre un brivido lungo la schiena scorre insieme ad altro.

Non esistono più filtri, barriere, decoro.

La presunta dignità l’avevi già persa durante il parto e soprattutto nel post.

Le braccia diventano bioniche e supponi che in una vita precedente sei stata un polipo dai mille tentacoli. Impari a mangiare in piedi, con una mano, camminando e cantando canzoncine  mentre tenti di deglutire, perché ormai lo stomaco è un contenitore asettico e buio in cui imbucare ingredienti commestibili e dal gusto omologato.

Assaporare è un verbo coniugato al passato e sopravvalutato.

Si gestiscono i turni per cenare, come nei migliori appartamenti Erasmus.

Ci sono le sere in cui ESSA, ELLA, iddra, insomma quella cosina umana che hai generato, non ne vuole proprio sapere di andare in braccio ad altra gente con cui divide la casa e, men che meno, di trascorrere pochi minuti nel seggiolone e ti si attacca con la colla vinilica e tu la guardi e…la guardi e…la maggior parte delle volte ti riscopri figlia dei fiori, adepta di Ghandi,  nipote del massimo esponente della spiritualità, della non violenza, “dell’inspiro ed espiro”, le sorridi e pensi che andrà tutto bene, poiché in fondo hai scelto tu di avere quella vita, consapevole (non troppo) delle rivoluzioni in atto, hai fortemente cercato e voluto proseguire la stirpe, senza alcuna pressione o condizionamento.

Sei stata l’artefice del tuo destino e lamentarsi non sarebbe opportuno e scorrono nella mente i titoli di coda di consigli mai richiesti ma ricevuti, in cui ti si ordinava di vivere appieno tutte le cose che “non potrai  più fare quando avrai i figli” ma tu, testarda e ingenua, ripetevi come un mantra il motto “con me e per me sarà tutto diverso”, con la presunzione di essere migliore.

Perché su, dai, raccontiamoci la vera verità, la realtà delle cose.

Tutti, almeno una volta, prima di avere figli o di pensare di averne, abbiamo pensato che la nostra vita sarebbe stata migliore-diversa-perfettamente organizzata e incasellata in fantastici post-it, dove le parole chiave ed evidenziate  sono  organizzazione e volontà,           in una sorta di pianificazione aziendale.

Tutti, almeno una volta, abbiamo osservato una madre e l’abbiamo giudicata, criticandone usi e costumi, modus vivendi e operandi, ergendoci detentori di verità assolute.

motherhood-

Nell’immaginario collettivo le madri possono essere di due tipologie.

Tipologia 1: madre disperata e isterica. Occhi sgranati, occhiaie livide, capelli unti e voce stridula. Guarda l’esemplare procreato con disprezzo e rabbia, urlandogli contro NO AD MINCHIAM per ogni richiesta lecita o insensata che sia. Sono quelle che ti raccontano delle loro interminabili fatiche, sempre sull’orlo di una crisi di nervi.

E’ la tipologia di madre che mia nonna condurrebbe al patibolo, alla ghigliottina, al carcere duro a vita, perché se sei madre non puoi odiare tuo figlio; è scientificamente impossibile e osceno che tu possa provare sentimenti contrastanti per quell’essere così  tenero e innocente che hai custodito per 9 dolcissimi mesi. Madre snaturata!

Tipologia 2: madre yoga, crudista, buddista, “zen”ista,  quella fashion e impeccabile, onnisciente, sorridente e perfettamente in grado di farsi odiare da ogni genere vivente. C’è la salentina borghese hollywoodiana che fa colazione/brunch al bar con il latte di soia e il cornetto ai cereali vegan, in piedi sulle scarpe firmate tacco 12, mentre l’inglesina ultimo modello custodisce l’erede e c’è la salentina trentenne ma un po’ sessantottina peace and love, scarpe alla schiava, sciarpona, dotata di  passeggino devotamente riciclato o  fascia elastica african style, rustico e biRetta e bambino scalzo libero e felice. Senza vincoli, senza regole che creano dipendenza e abbrutiscono gli animi.

Per quanto tra le due tipologie sia in atto una sanguinosa guerra aperta, è innegabile che entrambe provino pura invidia vicendevole. E allora penso alla mia piccola rivoluzione, alla vita quotidiana e non immaginaria, penso alla verità vera. Credo che la più grande sconfitta per una madre, come donna e come genitore divenuto tale da poco tempo,  sia quella di lasciarsi sopraffare dai sensi di colpa, dalle etichette esistenziali esterne, dai condizionamenti e dagli inutili se non addirittura deleteri paragoni con mondi lontani dal reale.

Ogni madre dovrebbe avere il coraggio di:

non sentirsi “ contro natura” se pronuncia le parole: sono stanca;

esprimere il proprio disappunto se qualcuno elabora ipotetici vademecum sull’essere genitori perfetti con gli altrui figli;

sentirsi persa, isolata e maledettamente terrorizzata dall’incapacità di gestire un semplice pianto dopo ore ed ore ed ore trascorse con quell’esserino malefico che non ti dà tregua.

Smettiamola di dire che esistono le super mamme, le mamme speciali, quelle che crollasse il mondo riuscirebbero a mantenere l’aplomb.

Tutto ciò ha generato e continua a generare frustrazioni quando la normalità si capovolge e diventa “straordinario” .

Ogni madre dovrebbe avere il coraggio di piangere e non per questo sentirsi meno madre e allo stesso tempo ridere, ridere a crepapelle quando si arriva allo sfinimento, quando i polsi non reggono più neppure un granello di sabbia, quando è dal giorno precedente che la tua pelle non vede né  l’acqua né sapone, quando il seggiolone è diventato un campo laser game, quando ti cadono i capelli perché gli ormoni dell’allattamento hanno devastato tutto e credi che il più grande atto rivoluzionario sia quello di andare al parrucchiere e tagliarti la lunga treccia e colorarti i capelli di rosa, in quei momenti,  sì  è lecito che nella tua mente vaghi quella  tragicomica domanda: chi me l’ha fatto fare?

Ogni madre dovrebbe avere il coraggio di  pronunciare tre parole: non ti sopporto, perché è nella fase successiva, all’avvenuta  liberazione, dopo la presa di coscienza che qualcosa in te non sta andando, dopo la momentanea follia, è lì che arriva la consapevolezza della grandezza di quello che stai facendo, di quello che sei diventata ma soprattutto della donna che vorrai essere.

Sì, ogni donna diventata madre resterà pur sempre una donna e non dovrebbe dimenticarlo.

Una donna diventata madre non amerà meno i propri figli se vuole sentirsi ancora bella, dentro e fuori e se per farlo ha bisogno di andare in posti frivoli come centri estetici, parrucchiere, nutrizionisti o negozi, ha tutto il diritto e dovere di chiedere un aiuto, un sostegno, un banale supporto anche solo per lasciare i propri figli nelle mani di qualcuno di cui si fida.

L’amore, quello vero, incondizionato, sconfinato, non richiede l’annullamento dell’esistenza, non necessita dell’annichilimento della personalità.

L’amore per un figlio è totalizzante, ma per ciò che riusciamo a dare, poiché reale è l’espressione “morirei per lui o per lei”.

E quindi non posso e non devo sentirmi meno madre se dimentico di esserlo una volta entrata nella scuola di danza, mentre indosso un body, mentre i piedi calpestano il parquet, mentre la mia anima si libera ed esplode e mi sento viva.

Le passioni viscerali, quelle che fanno vibrare le corde dell’animo umano, quelle senza se e senza ma, non possono venire meno, non possono essere tralasciate, poiché sarebbe come mostrarsi a coloro che abbiamo generato monche, a metà, non sincere, incomplete.

Se rinunciassimo a ciò che ci fa stare bene rinunceremmo a noi stesse, costruendo intorno a noi una fortezza insidiosa, un muro di spine e guarderemmo un giorno la nostra vita come quella di un altro, vissuta passivamente per una rivoluzione che forse non avremmo voluto fare.

Lo spazio vitale.

Ed è per questo che, nel 2016, appare stridente e anacronistico sbalordirsi se una madre decide di tornare al lavoro o trovarsene uno, lasciando il proprio figlio presso strutture adeguate, dopo un congruo periodo di congedo di maternità.  E’ lo spazio vitale. E’ la concentrazione di mille lotte che altre hanno combattuto per noi.

E’ la realizzazione di un diritto ma soprattutto di un dovere, quello di permettere a colui o colei che abbiamo generato di godere appieno delle possibilità che la vita offre e quindi un’istruzione adeguata, passioni da coltivare e una dimora e sì, queste cose hanno un prezzo e un valore, al di là della spiritualità.

Ed è per questo che, se la mia anima danza o scrive o crea e dimentica il mondo attorno a sé, si riempirà di gioia e prenderà fiato e questo produrrà qualità sul tempo da trascorrere con mia figlia, alla quale ho promesso questa sulla quantità.

Così passerotto della mamma, se il primo giorno di asilo ti ho lasciata nelle mani di un’estranea, ingoiando pillole amare di tristezza e malinconia, l’ho fatto perché tu possa avere sempre o quasi, i miei migliori sorrisi, le mie carezze più dolci, le mie lacrime di gioia, insomma,  quel tempo migliore che tu meriti, figlia mia.

Nella vita ci sono momenti in cui ci vuole tanto coraggio per lasciare andare quanto per trattenere.

Un giorno saprai che, lasciandoti andare, la tua mamma ha vinto un’altra piccola battaglia, compiendo una banale rivoluzione che solo tu hai saputo realizzare. Lasciandoti andare è venuto meno un brandello di quel maledetto controllo che piano piano, insieme, riusciremo a strappare totalmente, filo dopo filo e ancora una volta ho capito che a insegnare le piccole cose che rendono bella la vita sei stata tu.