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25 Gen

Storia di una Comunità viaggiante, che difende i sogni realizzandoli!

C’è stato un tempo in cui avrei voluto cambiare il mondo. Il tempo in cui ti  brucia un indefinita massa nel cuore e nello stomaco e l’unica via da percorrere è quella dell’attivismo e della partecipazione, “perché se tutti restano indifferenti non è detto che debba farlo anche tu”. 

C’è stato un tempo in cui la bellezza significava anime che si univano per dare un senso o almeno provare a darlo, occhi sconosciuti che dialogano, cuori impazziti che si fondono e menti libere da fuorvianti sovrastrutture che pullulano di idee che a volte realizzano.  Di  quel tempo ho fatto un po’ parte e mi illudo di non aver mai scritto la parola fine, concedendomi il diritto e il dovere di esserci ancora, tra coloro che difendono i sogni.

“Ogni tempo ha il suo fascismo: se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine, ed in cui la sicurezza dei pochi privilegiati riposava sul lavoro forzato e sul silenzio forzato dei molti”. (da Un passato che credevamo non dovesse tornare piùCorriere della sera, 8 maggio 1974; ora in L’asimmetria e la vita, Primo Levi).

Forse ancora non abbiamo capito, forse non avremo mai delle risposte, ma abbiamo il diritto e il dovere di continuare a porci delle domande.

C’è chi non aspetta il 27 gennaio per salire sul carro e sventolare la bandiera dei ricordi, ingiallita e pregna di polvere. C’è chi quella bandiera la lucida ogni giorno, con olio di gomito, sudore, allegria e con tanta voglia di capire il passato, perché è da esso che si parla al presente e si guarda al futuro, in un continuo dialogo, non solo con se stessi.

C’è chi la diversità la considera una risorsa, un incredibile strumento di confronto per migliorarsi e modificarsi nel senso più sano del termine, in quanto la conoscenza e l’informazione non hanno connotazioni geografiche.

C’è una comunità viaggiante che considero patrimonio dell’Italia intera,  una realtà nazionale. Il primo treno della memoria è partito nel gennaio del 2005, con a bordo circa 700 ragazzi leccesi e piemontesi, grazie all’ Associazione Terra del Fuoco, organizzazione non governativa italiana, nata a Torino nel 2001 ma con sedi decentrate sull’ intero territorio nazionale. Così come in un vero e proprio viaggio si percorrono strade, si cambiano direzioni, si prendono decisioni e si fanno scelte più o meno importanti, ogni tappa ha un senso, in un percorso educativo rivolto agli studenti delle scuole secondarie superiori e dell’università, che culmina a Cracovia per visitare gli ex campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau. Quello polacco è unico nella storia per l’uso che il nazismo ne ha fatto, divenendo lo strumento principe di eliminazione razionale e sistematica dei deportati, nella micidiale demolizione dell’uomo contro l’uomo.

In un preciso momento storico in cui i giovani vengono appellati in vari modi, a torto o a ragione, in cui la precarietà e il senso di insicurezza corrodono e avvelenano i pensieri, in cui il giudizio e l’indifferenza la fanno da padroni, c’è chi ha bisogno di spogliare la propria anima e rivestirla con mille indumenti provenienti da culture ed esperienze diverse, per sentirsi meno soli nella lotta delle idee,perché “quando si sogna da soli è solo un sogno. Ma quando si sogna insieme è già l’inizio della realtà” (Tdf).

Anche se non lavoriamo nel fango, se non moriamo per un sì o per un no, se non patiamo la pochezza del cibo, non possiamo permetterci di avere vuoti gli occhi. Questi ragazzi hanno provato a riempirli i propri occhi, affidandosi non solo ai ricordi, alle esperienze e alla competenza di chi li ha “educati” ad essere a loro volta portavoce del progetto, ma anche a vivere uno spazio di condivisione, troppo spesso assente laddove prevalgano individualismi ed egocentrismi del nuovo Millennio.

I bambini piangono spesso.
E’ facile ricordare il loro pianto. Ma gli adulti no. Sono lacrime silenziose, che squarciano il volto già tagliato dal freddo pungente. Ci sono occhi che non osserveranno più il mondo. Pianti che non si udiranno.

Dachau, Mauthausen Auschwitz, Chelmno, Ravensbruck, Fossoli.

Sotto lo stesso cielo, alzo lo sguardo e ricordo.

Scarpette, minuscole scarpe di chi non correrà, non intraprenderà la strana strada della vita. Capelli, ciocche che non saranno mai più scompigliate dal vento, che non conosceranno vanità, la grande bellezza, assaporando la propria immagine riflessa allo specchio.

Le stelle non si possono rubare, dimorano sopra di noi, custodi dei nostri sogni.

Eppure le hanno strappate dal cielo e obbligato a cucirle sulla stoffa.

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Betulle.
Al di là del filo spinato. Non sento alcun odore. Tutto è maledettamente coperto dalla neve così tanto candida da far paura.

Ordine caotico.

Silenzio assordante.

Solitudine nella moltitudine.

Assenza che deve farsi presenza, affinché i “vuoti occhi” possano colmarsi di una storia che è LA storia, per non sentirsi più estranei nella terra natia né ospiti in quella che si sceglie per metter radici.

Ricordo. La sensazione di perdere se stessi, il coraggio per preservare la propria anima, sporca, che si vergogna e si cela di fronte a tutta questa nuda verità di morte, ma financo di vita.

Più una cosa è grande e meno si riesce a vederla. Ma non lì. L’oscurità pervade e non puoi girare la testa per far finta che non ci sia. Tutto passa, persino dopo le tempeste più devastanti torna la quiete. Dentro, piccoli cambiamenti che tormentano, domande che generano rabbia, solida, concreta, come tale deve essere il ricordo, scolpito nel cuore. Esso è eterno, oltre i numeri tatuati.

 Nomi. Nomi di chi non ha più una casa, gli abiti, le persone amate. Di coloro cui è stata lacerata la dignità, avendo perso tutto, giacendo sul fondo.

E allora, quanti ancora, oggi, devono partire verso il niente; quanti ancora, oggi, vengono fatti schiavi e marciano “scalzi” su strade di discriminazione e terrore. Quanti ancora,oggi, sono obbligati alla fatica muta, alla gioia sommessa, al dolore che toglie il fiato e a una morte anonima?
Attuare il ricordo, perché le cose possano andare al giusto posto.
La storia siamo noie come canta Francesco De Gregori:

“la storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano, la storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano”.

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Raccontare del male, spingersi oltre la naturale autoconvinzione che tutto vada bene, è un atto coraggioso e crudele. Denuda l’uomo, lavando l’ipocrisia e l’egoistico senso di beatitudine nel guardare il più bel quadro della vita, poiché troppe sono le sofferenze quotidiane.
Un impetuoso senso di vergogna e turbamento mi accarezzano la mano, da quando ho sceso le scale del pullman, dando lo sguardo alla “banalità del male”, da quando la nostra anima e i nostri corpi infreddoliti sono stati avvolti e travolti dal cielo color fumo di Auschwitz e Birkenau.
Poi, arrivano i sensi di colpa, forse stupidi, forse legittimi.

Morsi di pudore lasciano i segni violacei sulla pelle. Non c’è pace, per nessuno. Né per i morti, né per coloro che camminano sulle loro ceneri, perché ingiusta la fortuna, il caso, la sorte di essere nati in un luogo o in un altro, in epoche lontane o vicine, eredi di religioni o miti differenti. Silenzio. C’è il frastuono delle domande interiori che generano terrore e rabbia. Nuda la verità davanti a noi. La storia si è fatta verbo e carne e non c’è modo di schivarla, è uno schiaffo in pieno viso, un calcio potente che ti spinge più in là, per osservarla più da vicino.

Silenzio, ancora il tumulto del silenzio. Blocco dopo blocco, latrina dopo latrina, le lacrime si cristallizzano sul viso gelido. Sguardi attenti e inconsolabili si incrociano. Sono gli occhi la nostra bocca, la loro luce il mezzo più idoneo a formulare parole di commemorazione. Non esistono più gerarchie, ruoli, età, distinzione di sesso. Tutti lì, in quell’ immenso luogo di memoria, devastazione e morte, siamo uguali, nella più bella forma di eguaglianza che esista al mondo. Perché se qualcuno avrà dato il nome a quella parola, eguaglianza, avrà pensato sicuramente a questo.

Tutti sostanzialmente uguali nel provare delle emozioni, visibili e tangibili, tutti estremamente uguali nel vivere un’esperienza, di quelle che ti squarciano. Il nostro viaggio non è stato verso il nulla, perché lì abbiamo trovato il tutto, tutto il male del mondo, un viaggio verso il fondo.

Tutti scoprono, più o meno nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta:che tale è anche una felicità perfetta. Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo, la sete, che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una disperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo. Non già la volontà di vivere, né una cosciente rassegnazione: chè pochi sono gli uomini capaci di questo, e noi non eravamo che un comune campione di umanità. (Primo Levi)

Ogni suono che sia umano è spento. Troppo “umano” sarebbe stato viaggiare in primavera o in estate. Basta poco per sentirsi infreddoliti nel corpo e nell’ animo. E’ il freddo il primo dei problemi. Quel freddo che taglia, ti soffoca, cancella ogni forma di pensiero. Eppure si aveva addosso l’intero negozio sportivo più cool del momento.

Il tempo passa goccia a goccia.
Le parole sono state inventate da noi uomini e in quanto frutto dell’umana mente godono degli stessi nostri limiti. Come potremmo, senza sfiorare l’eterna retorica, riuscire mai a esprimere con dignità l’esemplare devastazione dell’uomo?


Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti,tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine Campo di annientamento e sarà chiaro cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo. (Primo Levi)


E ritorna il senso di colpa, per quella fame cronica mai conosciuta, per quelle piaghe mai avute, per quel ventre gonfio e il viso tumido mai visto. E anche i più impavidi, persino coloro che avevano già immaginato come potesse essere lì,  con estrema compostezza e con profondo rispetto hanno accarezzato la mano di chi popolava l’inferno.


Se dall’interno dei Lager un messaggio avesse potuto trapelare agli uomini liberi, sarebbe stato questo: fate di non subire nelle vostre case ciò che a noi viene inflitto qui…Noi abbiamo viaggiato fin nei vagoni piombati; noi abbiamo visto partire verso il niente le nostre donne e i nostri bambini; noi fatti schiavi abbiamo marciato cento volte avanti e indietro alla fatica muta, spenti nell’anima prima che dalla morta anonima. Noi non torneremo. Nessuno deve uscire di qui, che potrebbe portare al mondo, insieme col segno impresso nella carne, la mala novella di quanto, ad Auschwitz, è bastato all’uomo di fare all’ uomo”.

 Ogni anno, in quasi 800 siamo tornati e ritorneremo.

Perché quel messaggio mai trapelato realmente è messo in opera, ogni anno.
Per non diventare bestie. Per vivere e non sopravvivere. Per raccontare. Per testimoniare. Perché non ci siano più schiavi, perché vengano attuati i diritti che si chiamano umani.

Dlin dlon:

…consigli per gli acquisti intelligenti:

Molto spesso si legge di film ispirati completamente o in parte a libri divenuti Best Seller o inizialmente poco conosciuti, che raggiungono la vetta del successo in seguito all’uscita del film.
C’è chi a Hollywood ci ha visto lungo. Qualcuno di nome Brad e di cognome Pitt ha pensato bene di acquistare i diritti di un libro, scritto da Edwin Black, dal titolo IBM e l’Olocausto: I rapporti fra il Terzo Reich e una grande azienda americana
L’attore ha espresso il forte desiderio di produrre, con la sua Plan B, il film della storia drammatica, un intreccio tra tecnologia e nazismo, statistica e ideologia. Scartata l’ipotesi di farne una serie televisiva, Pitt è deciso a portare la storia sul grande schermo, cercando qualcuno disposto a distribuirlo. Invece di parafrasare quanto scritto dall’autore, sembra più opportuno riportare alcune parti dell’introduzione, per riuscire a capire, riflettere, criticare o semplicemente venire a conoscenza della millesima sfaccettatura del periodo più buio e oscuro della nostra Storia.


Leggere questo libro sarà molto inquietante. E’ stato molto inquietante anche scriverlo. Il volume infatti spiega come, in modo diretto o attraverso le sue filiali, l’IBM abbia partecipato consapevolmente all’Olocausto e abbia consentito il funzionamento della macchina bellica nazista che uccise milioni di persone in tutta l’Europa. L’Umanità non si accorse nemmeno della silenziosa comparsa del concetto di informazioni altamente organizzate, concetto che poi sarebbe diventato un mezzo di controllo sociale, un’arma da guerra e uno strumento per la distruzione etnica. L’avvenimento che diede il via all’ intero processo si verificò nel giorno più funesto del secolo scorso, il 30 gennaio 1933, quando Adolf Hitler salì al potere. […]
Gli scienziati e gli ingegneri svilivano la loro nobile vocazione per progettare gli strumenti e trovare le giustificazioni della distruzione. Gli esperti di statistica utilizzavano infine la loro disciplina, poco conosciuta ma potente, per identificare le vittime, calcolare e razionalizzare i vantaggi dello sterminio, organizzare le persecuzioni e persino valutare l’efficienza del genocidio. E’ a questo punto che entrano in scena l’IBM e le sue filiali estere. Egocentrica e abbagliata dal suo stesso vortice di possibilità tecniche, l’IBM agiva obbedendo a un’immorale filosofia aziendale: se possiamo farlo, dobbiamo farlo. […] Quando Hitler salì al potere, i nazisti si prefissero l’obiettivo di identificare e distruggere i seicentomila membri della comunità ebraica tedesca…solo dopo essere stati identificati, gli ebrei avrebbero potuto diventare il bersaglio della confisca dei beni, della ghettizzazione, della deportazione e infine dello sterminio. Ma nel 1933 i computer non esistevano ancora. Tuttavia, esisteva un’altra invenzione:la scheda perforata dell’IBMe il sistema per la selezione delle schede, una sorta di precursore del computer. La filiale tedesca dell’IBM, progettò, creò e fornì, grazie al proprio personale e alle proprie apparecchiature, l’assistenza tecnologica di cui il Terzo Reich di Hitler aveva bisogno per raggiungere un obiettivo mai realizzato in precedenza: l’automazione della distruzione di massa. Oltre duemila apparecchi multifunzionali vennero distribuiti in Germania, e altre migliaia raggiunsero i Paesi europei sotto il dominio tedesco. In ognuno dei principali campi di concentramento esisteva un centro per la selezione delle schede. Le persone venivano trasferite da un posto all’altro e costretto a lavorare fino allo sfinimento, e i loro resti venivano catalogati mediante fredde operazioni meccaniche. […]
Le schede perforate potevano essere progettate, stampate e vendute da un’unica azienda: l’IBM.
Le macchine non venivano vendute, bensì noleggiate e venivano regolarmente sottoposte a migliorie e interventi di manutenzione da parte di un’unica azienda: l’IBM. Le filiali addestravano gli ufficiali nazisti e i loro rappresentanti in tutta Europa, creavano succursali e stringevano accordi commerciali in tutti i paesi occupati sfruttando l’inesauribile schiera di dipendenti dell’ IBM e gestendo gli stabilimenti in modo che producessero ben un miliardo e ben cinquecento milioni di schede perforate l’anno nella sola Germania.
Come riuscirono i nazisti a procurarsi le liste degli ebrei?
I censimenti e altre sofisticate tecnologie di conteggio e registrazione ideate dall’IBM in Germania hanno permesso ciò. L’IBM era stata fondata nel 1896 da Herman Hollerith, un inventore tedesco che aveva voluto creare una società tabulazioni per censimenti. Quando la filiale tedesca strinse l’alleanza ideologica e tecnologica con la Germania nazista, ai censimenti e alle registrazioni fu però affidata una nuova missione. L’IBM Germania inventò il censimento razziale, che rilevava anche la discendenza. Era questo il sogno dei nazisti: non solo contare gli ebrei ma anche identificarli.
Tuttavia, se pensiamo che senza l’IBM , sostiene l’autore, l’Olocausto non avrebbe avuto luogo, ci sbagliamo. L’Olocausto sarebbe andato avanti grazie ai proiettili, alle marce della morte, ai massacri condotti con carta e penna.
Grazie a questa lettura potremo analizzare gli straordinari risultati che Hitler ottenne quando decise di sterminare milioni di persone in breve tempo, comprendendo altresì il ruolo cruciale dell’automazione e della tecnologia.

Edwin Black ha raccolto oltre 20mila pagine di documentazione provenienti da cinquanta archivi, collezioni bibliotecarie di manoscritti , registri di musei e altre fonti. Ha avuto accesso a migliaia di documenti segreti del dipartimento di Stato, dell’Ufficio dei servizi strategici e altri documenti governativi un tempo riservati. E’stato creato un raccoglitore per ciascun mese dagli anni 1933 al 1950. Nessuno di questi ventimila documenti ha fornito informazioni univoche. Nessuno di essi era in grado di rivelare la vera storia. Anzi, molti erano fuorvianti se utilizzati come testimonianze autonome. Acquistavano significato solo se accostati ad altri documenti, spesso provenienti da altre fonti. “Solo riportando alla luce ed esaminando i fatti realmente accaduti, il mondo della tecnologia potrà finalmente adottare il motto che ormai abbiamo sentito pronunciare tante volte: Mai più”.
Successivamente all’uscita del libro di Black, una organizzazione del popolo rom ha denunciato l’IBM per aver venduto macchine punzonatrici e altre strumentazioni utili, facilitando le stesse operazioni naziste di distruzione. Una Corte d’appello di Ginevra ha stabilito che l’azienda è processabile in Svizzera perché nel 1936 aprì una filiale, dichiarando inoltre che non possa essere del tutto esclusa la sua complicità attraverso assistenza materiale o intellettuale agli atti criminali dei nazisti. L’IBM ha richiesto un intervento della Corte Suprema Svizzera.
Il ricordo è un macigno, gelido vento che taglia il viso. La strada della conoscenza conduce al ricordo. Sapere, questo il verbo più invocato dai superstiti della brutalità umana. Anche nei sentieri più contorti e mai percorsi.
Buona lettura!

10 Mar

Non è l’Amore a smuovere il tutto cosmico

Avete mai pensato a quale sia , in realtà, la domanda che ogni essere umano dalle Alpi alle Ande,incosciamente,vorrebbe che gli ponessero, per strada, negli incontri fortuiti,sul cesso,mentre si dirige come un bradipo al lavoro o a scuola,mentre si rade,durante l’estirpazione del pelo lasciato a coltivare manco fosse la più grande piantagione di cotone del Mississipi,prima di un briefing o di un coffe break,prima di un chupa dance,tra una sigaretta e uno sguardo di profondo autocompiacimento?e soprattutto,avete mai pensato che vorremmo che tale domanda fosse posta da chiunque,dalla cassiera dell’eurospin con le unghie fucsia/leopardate, lunghe quanto un ramo di ulivo secolare, che approccia una mini conversazione lunga un rullo di prodotti, dai salvaslip ai cereali muesli con nocciole e cioccolato in offerta, (che poi, a pensarci seriamente,le cassiere sono le vere guardiane dei nostri segreti più intimi,attente osservatrici di ciò che compriamo e quindi del nostro mondo,secondo il detto:dimmi che spesa fai e ti dirò chi sei),all’amica conosciuta da qualche mese con cui scambi effusioni d’amore letterario, scrivendole tesoro,amore,patatina,piccolina,bambolina, declinato nei vari diminuitivi delle stesse?
Dopo attente e dolorose ricerche, condite da riflessioni personali e statistiche ufficiali,sono qui,pronta a donarvi il calice del Santo Graal della conoscenza umana,metto a disposizione di voi tutti e delle generazioni future il vero motore dell’umanità,tutto ciò a cui l’universo obbedisce, poiché poveretti sono coloro i quali pensavano,ottusamente,che fosse l’Amore a smuovere il tutto cosmico.
La domanda cui tutti bramiamo è: Ma ti sei dimagrita/o???,
accompagnata da uno sguardo da triglia all’acqua pazza,dal tono di voce alla Tina Cipollari, unito a una gesticolazione alla Giorgio Strehler.
Trascorsi i 10 secondi in cui viene posta la suddetta,sarai in grado di vedere le stelle a mezzogiorno,l’autunno diverrà primavera e le marmotte confezioneranno la cioccolata.
E poco importa se la passata domenica, il pranzo dalla nonna avrebbe potuto sfamare il Burundi e il Congo intero,che con solo gli antipasti ingurgitati nella durata di una pubblicità mediaset,potresti smettere di cibarti fino al nuovo millennium bag,che la frutta, no diamine,è troppo pesante prima di un bignè farcito con crema chantilly del caro amico Citiso, Dio lo abbia in gloria,mentre le mani profumano ancora di polpette fritte. E ti convinci che tua nonna abbia ragione, quella santa di una donna, in fondo sono solo verdure e poi, quando è domenica le diete vanno in pensione, morte, seppellite, insieme al tuo fegato e alla tua coerenza. Ma c’è sempre il lunedì, il Godot della dignità umana,l’emblema della lotta impari tra privazione e abbondanza, tra Nord e Sud, perchè sì,gridiamolo al mondo,questo maledetto lunedì su al norde è solo un normale giorno della settimana che viene dopo la domenica, in cui riprendono le normali attività lavorative, in cui si ordinano le insalatine con pane integrale, al massimo ai 18 cereali, condite da un cucchiaino di olio evo e limone astringente.
Quella domanda spalanca finestre sul mare dell’ipocrisia,apre cassetti di sogni infranti,genera mitomani e illusi o frustrazioni latenti.
8 volte su 10 chi vi pone questa domanda vi sta prendendo pè o culo, sta giocando con i vostri più profondi sentimenti,sta accoltellandovi alle spalle.
9 volte su 10, non interessa neppure la risposta.
Perchè, eddaje, che vuoi che ti risponda?
Potrei elencarti le ultime 100 diete degli ultimi 15 giorni, prima del tuo meraviglioso incontro. Potrei suggerirti di provare, data la palese riuscita:
la dieta del pompelmo (mia madre ancora non se ne fa una ragione e io rido a crepapelle ogni qualvolta veda quel frutto strano adagiato nel banco frutta, pensando alla sua espressione di stitichezza convulsa mentre si cibava di ciò, convinta che tutta quell’asprezza avrebbe potuto farla rassimogliare alla Schiffer),ma il pompelmo rosa mi raccomando, perchè il colore influisce tantissimo sull’organismo che ci parla e noi possiamo ascoltarlo;
la dieta delle ore, grazie alla quale potrai cibarti ogni ora attraverso l’assunzione di molecole;
la dieta ipnotica che ripristina il benessere emotivo, riuscendo a dialogare con la mia sfera emotiva, attivando una comunicazione diretta tra il portafogli e il terapista;
la dieta del monoalimento,in cui mangi sempre la stessa cosa. frigorifero o dispensa parleranno la stessa lingua,saranno abitati dallo stesso indigeno,l’unico sopravvissuto nella moria degli alimenti. potrai gustare ogni giorno, dalla prima colazione alla cena, uno squisito broccolo al posto del croissaint o della pizza il sabato sera;
la dieta dei cinque fattori, dove 5 è la parola chiave. Per cinque volte tu donna ti alimenterai con dolore, gustando 5 alimenti strategici e segreti e ti inginocchierai per rassodare i tuoi flaccidi glutei e le tue cadenti braccia;
la dieta delle principesse Disney, che esige un’alimentazione a base dei prodotti sponsorizzati durante la visione dei film, dalla mela rossa agli spaghetti con polpette;
la dieta del digiuno, in seguito alla quale ti ritroveranno a vagare per le strade assolate di Lecce, senza arte nè parte,senza più un’identità o, caso peggiore, fare la fine dei famosi dell’isola,nudo in una pasticceria o rosticceria,immerso nel sugo dei calzoni o nella crema dei pasticciotti.

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21 Gen

L’angolo della Benetton

L’angolo della Benetton

Per chi non fosse di Lecce,( ma Lecce Lecce? Sì di Lecce) l’angolo della Benetton è un luogo fisico e metafisico posto nel centro della città, il posto più noto ai piskelli che prima ancora di truccare il loro motorino, prima ancora di radere i propri capelli con a-variati-disegni nella speranza che qualcuno riesca ad interpretare la loro opera d’arte, àncoravano letteralmente le proprie membra in quell’angolo,nell’attesa di navigare per mari e oceani.

Circa un anno fa è calato il sipario su un pezzo di vita di ciascun leccese, si è oscurato il canale che trasmetteva programmi di amicizia e incontri, la luce ha lasciato il posto al buio delle vetrine vuote, la stazione radio M2o ha smesso di trapanare il cervello e solo il silenzio si ode mentre si giunge il quel luogo-non luogo. Per capire l’importanza del suddetto, provate a immaginare Luciano Onder senza i suoi scoop salutistici sulle emorroidi, Linus senza la sua coperta, cercate di appropriarvi della visione di un Fedez senza i tatuaggi del collo o un Carlo Conti senza la possibilità di ricevere i suoi raggi ultravioletti quotidiani. La chiusura del negozio ha totalmente sconvolto le nostra vite, rovesciato i parametri, trivellato i punti di riferimento di numerose generazioni. Dicono che siano molti i padri e le madri che continuano a fare la posta, dandosi il cambio al volante per sgranchirsi le gambe e ascoltare la voce della minzione, in cerca del loro amato figlio, il quale aveva espressamente riferito loro di poterlo prelevare come un pacco celere al solito posto, alla Benetton.

Quell’angolo è la scatola in soffitta piena di polvere che cerchi nei momenti in cui affondi il cucchiaio nella nutella o nel gelato da 1kg, è il risveglio dopo una notte brava, nel posto giusto con la persona giusta, è il simbolo della mia pubertà/adolescenza, è la storia di milioni di storie che mi riguardano e che appartengono alla mia generazione e non solo. L’angolo della Benetton è lo spartiacque, tra una vasca e l’altra, tra piazza Mazzini e piazza sant’Oronzo, è il camerino in cui ti prepari per la sfilata del sabato sera. E’ il limbo, come lo era quell’arco di tempo generazionale legato alle scuole medie, tra gli 11 e i 13 anni, in cui ci si sente grandi a convenienza, in cui i maschietti hanno iniziato a pensare con una mano, quasi sempre la stessa e le femminucce a percepire il potere del corpo.

3 anni di pura libidine inconsapevole, in cui la bruttezza si impossessa di ciascuno di noi, ci circuisce, ci rapisce e non vuole neppure il riscatto. Perché sì, tra gli 11 e i 13 anni si è brutti, ma brutti brutti brutti, oRendi direbbero a La Sapienza. Verdastri baffi verdi su gambe, minuscole protuberanze in fiore,un discutibile senso dell’estetica e peli, peli come se non ci fosse un domani. L’abuso(in gran segreto) di creme depilatorie compare come la più grande fortuna dei centri estetici attuali. L’essere teenager nella seconda metà degli anni ’90, diciamocelo, è stata una grande figata. Era sempre l’ora di educazione fisica. Un guardaroba pieno zeppo di tute acetate rigorosamente Adidas o ADADES per i meno abbienti che si rifornivano dalle bancarelle della chiazza il lunedì o venerdì mattina, e se non ne avevi neppure una, beh, eri proprio out e a nulla sarebbe servito  incontrare Enzo Miccio sulla via della perdizione. Qualche anno dopo il nuovo millennio, si seppe in giro che fosse stata messa una taglia su tutti i parrucchieri che tra il ‘95 e il ‘99 applicarono il taglio “fungo” ai capelli di tutte quelle farfalline e pisellini volanti. Nella seconda metà degli anni Novanta, si contano casi di funghite cronica in ogni famiglia. Almeno un componente su 4, godeva di quella particolare acconciatura. Ma a noi sembrava la cosa più fashion che potessimo sperimentare, insieme allo zainetto della Mandarina Duck che anche “spellato”,come le foderine giallognole dei libri che a fine estate ti costringevano a mettere sul sussidiario per proteggerlo dalle paure e dalle ipocondrie, era straordinariamente cool. Cccè te prego.

Tra gli 11 e i 13 anni, in quel purgatorio tra l’inferno della maturità che tu vuoi, fortissimamente vuoi e il paradiso dell’essere nella fase pre-adolescenziale cui è concesso praticamente tutto perché sòregazzini,hai in mano il potere, possiedi il tesssssoro,l’archengemma dei nani, l’ illusoria libertà di uscire il sabato sera o di andare a pranzo, rigorosamente a turno, a gruppi di 4 per entrare tutti nella stessa auto, in casa delle amichette per la pelle, del cuore, del sangue condiviso da una puntura di spillo e il per sempre è per sempre e non ci sarà mai fine al nostro amore di amiche che si amano di bene, tvukdbkkkkkdb.

Così, dalle 13.30 di ogni sabato, una mamma su 4 godeva dello stesso sguardo della Carfagna nel peggiore dei suoi periodi, ospitando gruppi di farfalline maleodoranti e affamate e pronte a sopperire  al loro obbligatorio silenzio in classe, in quei minuti che rendono aggregante un pranzo di famiglia. Era tipico che dopo un pranzo fuori, tornando a casa, scaricassi tutta la mia rabbia contro una madre che non usasse preparare i sofficini findus. Che poi sto sorriso era fasullo. Tutte le altre mamme sono brave, comprano la coca cola, la fanta e i sofficini. E allora perché non chiedi alle altre mamme di adottarti?

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Avrei rischiato la chiusura in un collegio non ben identificato ma sempre sfoderato come il peggiore dei mali che potesse capitarmi, se solo fossi stata una cattiva bambina.

Ma poi con chi tornate? E dove vi dobbiamo lasciare? E cosa mangiate? Il papà di Pinca ha detto che può portare a casa anche Pallina, tanto è di strada. Ci troviamo all’angolo della Benetton.

Prima di uscire non ci si preparava, ci si allestiva. Nel gruppo, ero sicuramente una tra le meno accessoriate di elementi superficiali a metà tra il collo e l’addome. All’epoca ci tenevo a mettere in mostra una mercanzia inesistente. Così, spalleggiata dalle mie amikexsempreforeverandever, si dava inizio all’allestimento. Chilogrammi di cotone come neve in Russia, come milioni di batuffoli strappati all’alcool denaturato e al deretano di qualche anziano signore, dimoravano senza un regolare contratto in un top cotonella color beigiolino, per non dire proprio cacchina di piccione, accuratamente posizionati sui minicapezzoli, la cui fisiologica e naturale crescita era paragonata ad un’ampia varietà di frutta secca, dalle noccioline alle noci. La make up artist di turno, quando non poteva usufruire in gran segreto dei trucchi della madre o delle sorelle maggiori, sfoderava l’ultimo gadget del Cioè, la Bibbia delle teenager degli anni 90. Dubbi? Perplessità? Timori? C’era Santo Cioè a cui rivolgersi. Stamattina, mentre inciampavo sulle scale, Rocco mi ha guardata. Capisci? Mi ha guardata. Ora che si fa? Avrei potuto partorire 9 mesi dopo per uno sguardo di tale entità? Rispondeva Cioè.

Cara Samantha…

cioè

…To be continued…