“Al tempo…signore distratto”

Ci abbiamo davvero provato? Ad essere migliori intendo.
Non parlo della bontà del genere umano in quanto tale, della correttezza di una comunità di persone che hanno dovuto indossare guanti e mascherina e salutarsi con il gomito. Ci abbiamo davvero provato a scendere dall’Olimpo della nostra individuale esistenza e a metterci al servizio delle reali esigenze? In fondo, bramiamo tutti di essere visti da qualcuno, persino i più timorosi introversi sognano che qualche sguardo si posi delicatamente come piuma, solleticandone l’esistenza. Sentirsi toccati dagli occhi. Ci abbiamo davvero provato a sfidare ogni giorno il nostro destino con l’umiltà di chi sa di essere ad ogni costo fortunato?
Ci abbiamo provato ad avere paura e a raccontarcela?
«Non devi mai dire che hai paura, piccola Samia. Mai. Altrimenti le cose di cui hai paura si credono grandi e pensano di poterti vincere.»
L’ho letto in un libro dalla copertina color pastello che profuma di campo in primavera, il frinire delle cicale in lontananza, mentre le farfalle vanitose si mettono in posa. La delicatezza dell’immagine in copertina confonde il lettore. Lo accarezza e poi lo prende a schiaffi dopo aver tolto l’ àncora e iniziato a navigare tra le parole di Giuseppe Catozzella, lo scrittore Premio Strega, che ha dipinto con la sua penna il quadro di NON DIRMI CHE HAI PAURA, la storia della piccola somala Samia Yusuf Omar. E’ la vita di chi, con gambe magrissime e piedi veloci , voleva dare senso alla verità tumultuosa dei sogni, oltre la guerra del suo Paese, al di là della estrema povertà. La storia di una ragazza nata per correre durante la crudeltà della guerra civile a Mogadiscio, tra clan ed etnie. Correre è un bisogno. Un’esigenza e urgenza di riscatto, come donna, come simbolo del suo Paese martoriato. A soli 17 anni è riuscita a partecipare alle Olimpiadi di Pechino del 2008, correndo i 200 metri in 32 secondi e 16 primi, realizzando l’ultimo tempo di tutte le batterie.

“Ho tagliato il traguardo quasi dieci secondi dopo la prima, Veronica Campbell-Brown – si legge nel libro – Dieci secondi, un’infinità. Non ho provato vergogna, in ogni caso. Solo un forte senso di orgoglio per il mio paese. Istantaneo, appena passata la linea del traguardo. La gente ha continuato ad applaudire”.
Dopo Pechino, Londra. Era lì che voleva arrivare. Alle Olimpiadi del 2012.
È suo padre che la incoraggia a diventare un simbolo di speranza e di liberazione per le donne somale. “Vincere per me, vincere per dimostrare a me e a tutti gli altri che la guerra poteva fermare alcune cose ma non tutto, vincere per fare felici aabe e hooyo”.
La libertà costa sempre troppo quando ci sono degli “ismi” di mezzo. Gli integralisti prendono il sopravvento e Samia, ormai orfana, si rende conto che ha solo un’opportunità per inseguire i suoi sogni: fuggire.
Fuggire per la libertà.
“Ma il destino con me poteva scegliere di fare quello che voleva. Io sapevo benissimo dove volevo arrivare. Il vento, con il mio magro corpo, ha sempre avuto vita dura. Sono io che l’ho sempre mosso, al mio passaggio. Sono io che ho imparato ad usarlo come spinta dietro la schiena, per farmi volare”.
Il viaggio verso la libertà è lungo ottomila chilometri fino ad arrivare al mare “dei migranti”, quello nostro.
Non dire che hai paura, Samia. Glielo sussurrava con fermezza il papà.
Voglio pensare che il suono di quelle parole abbiano cullato la piccola atleta durante l’infernale viaggio.
Ma, mentre leggevo, immobile e testa china su quelle pietre nello stomaco, avrei voluto acconciare i capelli di Samia, spettinati dal vento, sistemarli dietro le orecchie con una mollettina colorata, come faccio con Arya, e dolcemente stringerle la mano, sulla quale avrei scritto con un dito senza inchiostro, lettera dopo lettera:
v a b e n e s e h a i P a u r a. P u o i.
Le mancava l’aria persino per i sogni.
Puoi dirlo che hai paura piccolo cerbiatto dalle gambe lunghissime. Paura di deludere te stessa e le persone che ti amano. Per una volta non sentirti invulnerabile, invincibile. Puoi sentire il peso della tua fragilità e della tua angoscia. Puoi pensare di aver fallito o di aver sbagliato tutto. Il tuo sogno non sarà meno potente e tu non sarai meno Samia. Ci si può guardare allo specchio e non riconoscere l’immagine che si ha di fronte.
Si può dare un nome alle ombre nere cucite sotto i talloni della nostra esistenza.
Corri, Samia, corri come se non dovessi arrivare in nessun posto…
Vivi, Samia, vivi come se tutto fosse un miracolo! Quel miracolo sei stata tu.
Ammettere di avere paura è un atto di coraggio e di amore. Provare ad alzare la polvere magica dei sogni per sentirsi vivi è da super eroi senza mantello e senza maschera in questo mondo indaffarato e inconcludente.
La stessa paura che non ha bloccato Willy. La paura non ha vinto sull’egoismo, non ha avuto la meglio sull’indifferenza e sull’individualismo. Willy ha gettato la fune. Architetto di un ponte tra la solidarietà e l’odio, tra chi agisce mosso dall’amore e chi resta a guardare, non per paura ma per atavica superficialità.
Sì, un ponte.
Fare finta che non esistano decadenza, dispersione, rassegnazione, la semplificazione dei contesti, l’ignoranza della troppa informazione determina la costruzione di un acquario di plastica in cui nuotano pesci giganteschi. Prima o poi la base non riuscirà a reggere il peso e inonderà tutta la casa.
Fino a quando sarà sempre colpa del “cattivo”, del “diverso”, del “violento”, dell'”estremo”, ci troveremo assolti e sollevati dalla responsabilità individuale, sentendo queste “tragedie” come lontane da noi, storditi alla visione del servizio giornalistico in tv nel nostro rifugio personale, in fondo serenamente consapevoli che dimenticheremo anche questa volta.
Fino a quando le parole suoneranno una musica che si sente solo in lontananza, fino a quando concetti su cui si basa il vivere umano resteranno catalogati come distanti, assenti, alieni, separati dalla realtà e delegati ai capri espiatori altrettanto imprecisi, saremo sempre più smarriti e impotenti e ci farà comodo.
Il VUOTO.
E allora per evitare di inciampare nel bandolo della matassa infinita delle colpe altrui, mi prendo io la colpa. Inizio da me. Come donna. Come mamma. Come moglie. Come amica. Come sorella.
Perché diversità, uguaglianza, mutuo soccorso, solidarietà, non sono confutabili. Non sono neve al sole.
Se smettessimo di pensare a loro come ideali, come prerogativa di una cosa troppo grande rispetto a noi piccoli individui; se la finissimo di giustificarci contro lo Stato, questo strano mostro a mille teste che non ci aiuta e la società chetelodicoafare mancopennienteh, allora potremmo fare un buon uso del nostro essere “persone”.
Da dove si inizia? da quella bizzarra composizione che chiamiamo famiglia, nella più complessa e colorata accezione che si possa concepire.
Si potrebbe iniziare a parlare. A parlarci.
Si potrebbe iniziare a raccontare ai nostri figli che andare a scuola non libera i genitori dalla presenza fastidiosa dei piccoli, scuola come sinonimo di parcheggio socialmente accettabile. Si potrebbe iniziare a imparare per primi e poi provare a insegnare ai nostri figli che le maestre o i maestri sono i custodi del cervello dei propri alunni, giardinieri dei loro pensieri, guerrieri di fede perché credono o meglio, dovrebbero credere nella diversa capacità e particolare talento di ognuno e come tali, come persone prima e come professionisti poi, vanno rispettati.
Rispetto.
C’è vuoto di rispetto. Vuoto di comprensione. Vuoto di esempi.
Si potrebbe iniziare a insegnare che i colori sono universali. Sono i gusti ad essere particolari.
Se riuscissimo a spiegare con semplicità e verità che maschi e femmine non devono odiarsi, che non esistono privilegi per il fatto di appartenere ad un cromosoma, che gli errori così come la bravura appartengono al singolo individuo e alla sua azione e che i giudizi sono bombe che mutilano, etichette waterproof che definiranno la personalità e le scelte future, allora potremmo sperare di avere figli meno arroganti, di esserlo noi per primi. Mi rifiuto di educare mia figlia alla lotta per la sopravvivenza. Al principio filosofico hobbesiano per cui l’uomo è lupo per l’altro uomo, per cui la natura umana è fondamentalmente egoistica e saremmo spinti soltanto da un innato istinto di sopraffazione.
Mi ribello all’idea che ci sia costantemente un nemico da abbattere.
Sotto assedio.
Difesa. Attacco.
Se ci fosse un master di quinto livello supersayan per la trasformazione del genere umano in umano essere dotato di empatia e gentilezza, le aule dovrebbero essere stracolme.
Empatia.
Gentilezza.
Attenzione.
Sguardo.
La cosa più nobile che dovremmo insegnare a chi abbiamo avuto la fortuna di mettere al mondo è la capacità di guardare negli occhi, di osservare cosa stia accadendo fuori dal nostro microcosmo personale e sentirci parte della diversità che è bellezza.
Mi oppongo al giudizio e al pregiudizio di chi etichetta la sensibilità come debolezza.
Voglio e pretendo attenzione, da donare e da ricevere. Relegare i sospiri generosi e le mani che si stringono o le spalline che sostengono visi tristi ad aliene minoranze da bandire.
Essere attenti ai fiori di campo, quelli irriducibili, delicatissimi allo sguardo ma talmente potenti da riuscire a fiorire tra le fessure di un tombino o ai bordi dei marciapiedi, essere attenti a non calpestarli.
Essere attenti alle parole che si usano, che possono essere piedi che percuotono anime.
Essere attenti alle distrazioni degli altri; agli abissi che uno si porta dentro; essere attenti alla poesia e non provarne vergogna.
Considerare le cose belle del mondo. Quelle belle vere.
Siamo bravissimi a svincolarci sempre dalle cose che ci riscaldano. Stiamo lì, come irriducibili ragionieri pronti ad annotare sul file excel dell’esistenza le sciagure che sbucano nel nostro io.
Abbiamo tutti un dono che non va sfumato sulla carta carbone della vita.
Su un treno regionale veloce Torino-Milano, il mio sguardo e il mio pezzo di cuore si sono abbandonati alla bellezza di un papà non vedente che veniva accompagnato da un bimbo che avrà avuto più o meno l’età di Arya. Erano la cappella Sistina insieme, quei due. Saliti ad un paio di fermate successive alla mia, le più affollate e dispersive. Lo gnometto era un abile capitano che fiero e indomito attraversava il corridoio in tempesta e portava in salvo il suo grande esploratore. La sua immagine, per me, è stato l’emblema di quanto serva spostarsi dalla piastrella in cui siamo per avere una visione completa, la messa a fuoco su alcuni dettagli fondamentali del nostro vivere. Erri De Luca scrive che “mantenersi” resta il suo verbo preferito. Tenersi per mano, tenersi stretti. Sorreggere pezzi dell’altro, senza parlare, con un tocco.
Nei periodi di totale oscurità scegliamo gli occhi che possano guidarci.
Provare ancora stupore. Di quando lo scirocco improvvisamente ti raggiunge sotto al viale di pini, ti beffa sollevando la gonna del tuo vestito e provi una gioia inaspettata, un imprevisto che non punge ma solletica.
Vorrei provare ad insegnare a mia figlia a sentirsi fragile. Abbiamo sempre paura di mostrarci fragili e invece è il salvagente dell’ umanità. Ciò che ci fa restare immensamente bambini.
Il mondo ripudia il tempo perso a provare dolore o a restare in silenzio e sentire il frastuono dei brutti pensieri.
Fragilità! Non è un sinonimo di friabilità. Non siamo biscotti friabili che si sbriciolano sotto il peso di paure ataviche. C’è tanta bellezza nelle cose fragili. Ci sono ancora persone che annusano le pagine dei libri appena acquistati e saltellano per aver scartato un regalo inaspettato. Ci sono ancora persone in grado di sorprendersi, provare meraviglia per qualcosa o per qualcuno.
Ci sono ancora persone che riescono a togliere la linguetta della felicità, quella che un bimbo trova quando maneggia un giocattolo a pile. Ci sono individui-musica. Persone-poesia che disinfettano alcune ferite ataviche e rimuovono le garzine alle ali, mossi dalla strana magia che regala il verbo amore.
Poesia.

Facciamogliela vedere la luna ai nostri figli. Tutti con il naso all’ insù. Avremmo fatto buon uso della punteggiatura del quotidiano, dando nuovo senso alle virgole e ai punti. Balliamo sui puntini di sospensione sentendoci nudi sotto una pioggia di luce, saltellando da un passato a un presente pieno di colori. Si può vivere un pezzo di vita sgrammaticata e folle senza sentirsi in colpa, protetti dall’ incanto della favola senza principesse e principi, ma di pelle che sfiora altra pelle, di abbracci che il respiro te lo donano, di carne che trasuda fuoco.
Rarità!
Non ci prenderanno per pazzi e anche se lo fossimo, anche se fossimo alieni leggeri arrivati da un altro pianeta, ci sentiremo umili artisti che contribuiscono all’arte più grande di tutte, come scriveva Brecht: quella di vivere!
Possiamo ancora farcela. A sentire con gli occhi e a vedere col cuore intendo. Ad arrossire per un complimento inaspettato, a rispondere all’apatia con l’empatia, a commuoverci davanti alla notte stellata di Van Gogh senza vergogna, a opporre al qualunquismo la responsabilità dell’Io che si trasforma in Noi.

«Non so che poeta io sia stato in tutti questi anni. Ma so di essere stato un uomo:
perché ho molto amato, ho molto sofferto, ho anche errato cercando di riparare al mio errore, come potevo, e non ho odiato mai. Proprio quello che un uomo deve fare: amare molto, anche errare, molto soffrire, e non odiare mai».
Ecco, se Peppino Ungaretti fosse qui, sarebbe questo il regalo più bello per i miei impellenti 35 anni: con le sue parole mi ricorderebbe che posso amare molto, soffrire assai e sbagliare di più MA non odiare mai!