25 Giu

“Il giorno più bello? Oggi. L’ostacolo più grande? La paura. La cosa più facile? Sbagliarsi. L’errore più grande? Rinunciare.”

“Si sa che i genitori di solito tendono ad assecondare le richieste dei propri piccoli, nei limiti del possibile, però si distinguono in 2 categorie: quelli che farebbero qualsiasi cosa purchè il figlio diventi QUALCUNO e quelli che sminuiscono le sue fantasie perchè con l’arte non si porta il pane a casa. La categoria di quelli normali, che ti accettano per quello che sei, io non l’ho ancora incontrata”.

Lo ha scritto Maria Francesca Garritano, etoile della Scala, dopo essere stata allieva dell’Accademia di danza più prestigiosa in Italia.

Quando ho scoperto di essere incinta di una mostriciattola col nastro rosa, si è spacchettato dinanzi a me un vaso di Pandora sui luoghi comuni universalmente riconosciuti validi nella nostra Italica patria.

Oltrepassata con sospiro la fase della “stregoneria alla Vanna Marchi dei poveri” sulla lunghezza e rotondità della panza, con cui si determina il sesso del nascituro, il nucleo, il quid, il nodo cruciale è diventato quello di far indossare l’abito professionale dei nostri feti sulla base di come se la godono nella PLACENTA SPA & WELLNESS.

E così, si schiera la tifoseria della squadra bianca e quella della squadra blu, ritrovandoci (nel luogo più comune e universalmente riconosciuto come tale e reale) a contrattare due opzioni:

  • Musica di Super Quark in sottofondo, grazie- Aria sulla quarta corda-

È quando testicolo e ovaio si incontrano, dopo essersi inviati note vocali della durata di anni, che lo spermatozoo più sveglio si trasforma in ciò che il pubblico votante desidera.

Se lo spermatozoo in questione raggiunge “in fallo” il gamete femminile, toccandosi là dove il sole non brilla, puntando gli occhi al cielo e mostrando il tatuaggio di Diego,

stu piccinnu, calciatore lu facimu”.

Se invece quel simpatico girino arriva alla meta con un grand jetè, inchinandosi davanti a cotanta bellezza, “quista ballerina ede”

Torniamo semiseri.

Siamo davvero arrivati a classificare, a distribuire le nostre etichette in omaggio e visioni della vita in due macromondi in cui, se nasci pisello e per puro e fortuito caso ti capita di tirare un calcio, la tua unica ragione di vita sarà quella di correre dietro ad una palla con annessa bionda da amare, mentre se nasci farfalla e muovi la testolina con la fontanella ancora aperta, azzeccando il ritmo di Alvaro Soler, potrai fare i provini per Amici duemilacredici, perché è evidente che senti il ritmo dentro e sei portata???

Da quando abbiamo annichilito, invalidato il passaporto verso mete sconosciute ai più e meno modaiole, dissolto lo sguardo verso l’arcobaleno, preferendo puntare tutto sul bianco o sul nero? È inverosimile credere nella fattibilità di crescere bimbi pisello e bimbe farfalla che godano del più ampio spettro di opportunità di emozionarsi durante la loro speciale vita e ardere di passioni che scaturiscano dall’arte e dallo sport e conoscenze incredibili che l’umana specie , coadiuvata dalla natura e da secoli di evoluzione, (fino ad ora) ci hanno lasciato in eredità?

Quale diritto abbiamo noi genitori di rasare il giardino delle sperimentazioni, proponendo strade già calpestate, inducendoli a provare emozioni falsate e falsificate da una vita già vissuta o non vissuta da mamma e papà?

Quando ho saputo che Arya sarebbe stata quella bambina tante volte sognata nelle poche ore rem tra pipì e cambi di posizione di panza, con i capelli biondi e ondulati e occhi grandi da perdere le bussole, la voce di Conte (l’allenatore) tuonava negli orecchi: è agggghhhhiacccianteeee.

Il cuore si è tuffato dal più alto scoglio in una scatola di latta di sardine puzzolenti, stritolato in un abbraccio senza fiato, come quando l’onda dello ionio in giugno ti schiaffeggia la pancia e tu, dopo il breve ma intenso sussulto, puoi godere immensamente della freschezza del tuo mare.  Una femmina. Perdincibaccoseccoebrillo è una femmina.

E via il coro dell’Antoniano, il santo rosario di Papa Francesco sotto quaresima, l’Infinito di Leopardi recitato per il suo anniversario: la domanda delle domande.

Sarà una ballerina proprio come la mamma, no?

Disagio. Tanto disagio. Ho sempre detestato questa domanda e ho sempre avuto profondo imbarazzo nel fornire risposte. Fuggivo e fuggo ancora dall’idea che un essere umano possa essere la copia carbone del precedente in ordine cronologico e genealogico e non per specialità ma per identità.

Così ho iniziato a fare mia la mitica riflessione di Rita Levi:

l’uomo senza incrinature, sarebbe una mostruosità.

“vorresti saper fare una cosa, non importa quale, eccezionalmente bene…tu pensi che eccellere in qualsiasi attività, debba dare un senso di grande sicurezza e probabilmente anche una grande gioia. Io non sono d’accordo con te e ritengo che eccellere in un’attività qualunque non serva che a stimolare la vanità e a fare da paraocchi. La sicurezza che ne deriva è schermo all’intima debolezza e la polarizzazione a coltivare quella particolare attitudine è a danno e non a vantaggio della personalità. Più avanzo negli anni e più sottovaluto le qualità che portano al successo e alla supremazia. Le mie simpatie vanno a quelli dotati di una profonda e acuta sensibilità, a quelli che sanno dimenticarsi completamente nella contemplazione dell’universo e o nella dedizione degli altri e a quelli non senza incrinature ma che fanno errori e sono vulnerabili. Aperti e Recettivi. 

Soltanto gli insetti non schiudono sino a quando non sono perfetti e da quel momento non cambiano nè pelo nè una cellula. Noi vertebrati o meglio primati, meno perfetti e meno predeterminati, continuiamo a crescere, bene o male, chi più chi meno. E il processo di crescita è più interessante dello sviluppo perfetto”.

Ho sempre desiderato che mia figlia fosse aperta e recettiva, meno perfetta e meno predeterminata.

Quando me l’hanno portata per la prima volta in braccio per iniziare a darle il succo della vita, presentandoci l’una all’altra, con gli occhi giganteschi che catturavano il mondo, ha iniziato a prendere ciò che voleva con una forza e un impeto così potenti, da evidenziarmi il fatto che fosse Arya, la bimba che non ha copie e non vuole averne.  

Un pomeriggio, di quando ancora era alta meno di un comodino giapponese, di quelli di stitichezza assoluta, di quelli di brividi e sudori freddi, quando la mia mano tiene forte la sua e le ripeto che ce la può fare, lei mi ha guardata e con una fermezza da trentenne mi ha reso esplicito un suo desiderio che io ho sempre fatto finta di non sapere:

“Mamma, io voglio ballare. Voglio venire a scuola di danza e mettere le punte, ti prego.”

La danza è di tutti, ma forse non per tutti e quando affermo questo non sto facendo un ragionamento razzista o elitario.

La danza è arte e quindi come tale è universalmente riconoscibile e fruibile, come la Gioconda.

La danza è per le bimbe con le gambe con le pieghette da mordere, dal movimento molto più leggiadro di quelle a spaghetto ma privo di condimento.

La danza è per i bimbi che ancora, nel 2020, si sottomettono al volere dei luoghi comuni e dello sguardo schifato di padri che evidenziano una concezione retrograda della vita, da madri che nulla farebbero senza il consenso dei loro mariti, dalla società intera che marchia il bimbo pisello, bullizzandolo e beffeggiandolo se solo ipotizza di entrare in una sala con specchi e parquet.

Lo stereotipo del ballerino gay è ancora ben incastrato nella buca di menti anche “acculturate”.

E così milioni di bimbi pisello con forti inclinazioni alla danza, senza filtri e senza sovrastrutture tipiche del mondo adulto, vengono schiacciati dalla pressa del mondo moderno, inducendoli a credere di non sentire quello che sentono e di non volere quello che vogliono: scoprire il proprio essere attraverso movimenti che naturalmente vengono creati da parti del corpo, a volte lasciandosi trasportare dalla musica, altre volte ancora dal suono che la natura ci fornisce come dono più prezioso.

La danza è per coloro che sentono la propria risata attraverso i piedi, non importa dove, è un bisogno che va placato: un camerino di Zara, mentre la mamma prova i pantaloni in saldo; il corridoio di una Chiesa mentre si celebra un matrimonio; davanti allo specchio in un grande supermercato mentre si fa la spesa settimanale; per strada, durante una passeggiata, in pizzeria, in lavanderia, ovunque resti visibile l’anima, potente e infuocata. È lì che si gode di pura estasi incontrollata e incontrollabile ed è lì che possiamo ricordare che non ci sono barriere, né filtri, né scalata sociale, né carriere, né gay, etero, bicolor, coloriunitiperbenetton, arcobaleni, nulla di tutto quello che le costruzioni mentali varie e avariate ci hanno imposto di credere, ma solo la bellezza di sentire la propria anima, mentre si denuda, per vedere l’assoluto.

La sala azzera le differenze sociali. Quando la mano si posa leggera e nello stesso istante forte, accarezzando la sbarra, fasci di luce illuminano ciò che si è in quel momento e non conta se i piedi calzano le migliori marche di scarpette da punta o se le dita escono dalla tela logora e in attesa di essere cestinate appena sarà possibile l’ennesimo acquisto. Davanti allo specchio, scrutiamo i nostri limiti, li odiamo, rabbrividiamo davanti ad una nostra imperfetta esecuzione, ma poi, una volta accettati, quei limiti li superiamo, perché nulla è impossibile.

È nella crisi, nella stanchezza più acuta, quando le braccia non reggono più il peso, le gambe tremano e tu le scuoti, le schiaffeggi sperando si riprendano, quando i piedi fanno fatica a flettere e stendere, è in questo momento che il cervello si palesa fortissimo, è lui che governa il corpo, mentre il cuore non molla mai la presa.

La danza è per chi vuole spingersi oltre.

È per chi ha il cuore in fiamme e vuole accendersi e scaldare attraverso le emozioni che vengono fuori con un movimento e non una esecuzione sterile.

Per chi crede nella magia, quella che ti raccontano quando entri in sala a 3 anni, la polvere magica sprigionata dal tulle del tutù, per chi la conserva sempre quella fanciullesca sensazione di meraviglioso stupore nel credersi magiche e speciali, senza presunzione.

Essere adulte e bambine nello stesso tempo. Riconoscere la stanchezza, la resistenza e la resilienza.

La danza è per chi accetta come valore assoluto l’educazione, profonda e limpida.

Per chi crede nel potere dell’insegnamento e del Maestro che sceglie di seguire. Per chi ha sempre presente la meta da raggiungere, che non ha mai fine poiché non esistono vittorie, nessuna coppa, alcuna medaglia d’oro, per chi vive sinceramente e affronta senza piegarsi dolori e delusioni, con dignità maggiore di chi è stato spinto da un vento favorevole e leggero.

Per chi non può permettersi questo sogno ma, con tutta la famiglia, lotta a denti stretti, testa alta, spalle dritte e scarpe consunte.

Arya voleva stare lì, voleva essere parole e poesia, sentire il vento che faceva capolino tra le posizioni di braccia e piedi, insinuandosi.

La danza è per chi non potrebbe fare altro che questo, chiamare Casa la scuola che si sceglie, famiglia tutti gli altri allievi con cui ci si scambia sudore, fatica, sorrisi e vita, vissuta per terra, sul parquet, a mezz’ aria e tra le nuvole. Terra e cielo.

Impossibile non essere, impossibile non farlo. Essere ogni movimento, sempre diverso, verso e rima.

Chi vuole danzare, a 3 anni come a 30, non lo fa per le audizioni o per lo spettacolo di fine anno. Non lo fa per il successo o la gloria o peggio ancora perché la cugina, l’amica del cuore, la zia, la nonna, la migliore amica si è iscritta a danza.

Chi sente il vulcano dentro lo fa senza limiti, privo di condizionamenti,

dipingendo nell’aria, disegnando il proprio credo, mentre la musica sospira e ammira la poesia.

Gli occhi di un ballerino mentre danza, parlano più dei suoi piedi che tecnicamente eseguono un passo.

La ricchezza di chi entra in sala e poi  in teatro è la libertà di volare oltre ogni cosa. Al di là delle apparenze, oltre l’obiettivo e gli stimoli terreni, la danza è per chi offre al mondo e a se stesso la possibilità di vivere, toccando la profondità delle cose.

La danza insegna a non abbandonare, a non mollare, a non avere bisogno di pressanti, superficiali, innumerevoli stimoli per sorridere alla vita e per amarsi. Arriverà la vocina che dice di mollare, il demone che abbatte e batte, se ne varrà ancora la pena o se è il caso di lasciare stare.

Ma se non ci sarà altro posto che sentirai tuo come il corpo che vibra come corde di violino, se crederai di avere dentro la luce d’oro dell’alba e rossa del tramonto, se ti immaginerai finestra che accoglie i raggi del sole con il mare all’orizzonte, se vedrai il mondo in un granello di sabbia e l’infinito racchiuso in quello che interpreti, allora non ci saranno luoghi comuni e universalmente riconosciuti come tali e reali nell’Italica patria.

Saremo coloro che accetteranno una figlia per quello che è, hic et nunc, ora e per sempre, nell’evoluzione e rivoluzione degli anni che avremo da gustare, liberi da sovrastrutture, sporchi di pece per non scivolare e se inciamperai, se scivolerai anche con la pece, dentro e fuori la sala, avrai la giusta leva che ti permetterà di alzarti, pulirti, sporcarti ancora e ricominciare, da dove hai lasciato o da zero.

È vero. L’aspettativa più nobile e importante che un genitore dovrebbe porsi per i propri figli è quella che diventino qualcuno: ovvero quello che sono nella profondità del loro carattere e delle loro inclinazioni, monitorando sorrisi e suoni generati dalla loro felicità senza limiti.

14 Giu

PASSEROTTO NON ANDARE VIA…O FORSE ANCHE SI

Mi ero illusa che col passare dei giorni gestire la schiacciatina sarebbe stato più semplice, perché si sa, passata la fase coliche * (ricorda: dicesi fase coliche quando si grida al miracolo per una  scorreggia puzzolente neppure si fosse nutrita di sole rape nfucate e si stappa la bottiglia di vero champagne  per l’avvenuta evacuazione spontanea e non agevolata da magiche pompette. Che Dio abbia in gloria Carlo Erba!) pare sia tutto in discesa. Pare.

Ma pare che invece la mostriciattola abbia deciso di unire la fase coliche a quella  di “dentizione”, che per quanto tempo ce li ha sfracellati con pianti isterici e metamorfosi da lama, adducendo nervosismi vari ed eventuali al dolore in bocca, a quest’ora avrebbe potuto vantare una stupenda e funzionale dentiera da uomo di Neanderthal e gustare succulente bistecche al sangue (non me ne vogliano i vegani).

I neonati sono furbi, furbissimi e anche paraculi e indovini.

All’arrivo dell’altra fondamentale fase dello svezzamento, si attaccano a ventosa alle tette, mostrando una voracità mai avuta nei 5 mesi precedenti e una mostruosa morbosità da crisi di abbandono, che si potrebbe prenotare già un lettino in analisi.

E ti illudi, sciocca, che con la loro breve autonomia della crescita possano lasciarti libera e felice di vagare nei campi della toiletta, per godere di una meritata minzione trattenuta ore ed ore, con sconfinata pazienza, nell’attesa che i suoi teneri occhi da cerbiatta vengano cullati dallo sconosciuto Morfeo e sei lì, in piedi  , con la vescica e il perineo uniti in matrimonio, avvinghiati l’una all’altro nella prima notte di nozze, con le braccia che simulano una dolce passeggiata e scendono negli abissi della tanto odiata carrozzina, (manco fossi Tom Cruise in Mission Impossibile) e trattieni il respiro mentre lei sospira, perché dai, povera idiota di madre, in fondo conosci a menadito il copione: ti trasformerai in Pietro Mennea correndo verso il cesso ma io, che sono più veloce e furba di te, piangerò la sorte mia e ti costringerò a prendermi in braccio e a condurmi insieme a te nel fantabosco del cesso. E così abbassi le braghe con la mano sinistra mentre con la destra sorreggi il diavolo di tua figlia, fiera di averla vinta, la sua battaglia, e ti siedi sulla ceramica, mentre un brivido lungo la schiena scorre insieme ad altro.

Non esistono più filtri, barriere, decoro.

La presunta dignità l’avevi già persa durante il parto e soprattutto nel post.

Le braccia diventano bioniche e supponi che in una vita precedente sei stata un polipo dai mille tentacoli. Impari a mangiare in piedi, con una mano, camminando e cantando canzoncine  mentre tenti di deglutire, perché ormai lo stomaco è un contenitore asettico e buio in cui imbucare ingredienti commestibili e dal gusto omologato.

Assaporare è un verbo coniugato al passato e sopravvalutato.

Si gestiscono i turni per cenare, come nei migliori appartamenti Erasmus.

Ci sono le sere in cui ESSA, ELLA, iddra, insomma quella cosina umana che hai generato, non ne vuole proprio sapere di andare in braccio ad altra gente con cui divide la casa e, men che meno, di trascorrere pochi minuti nel seggiolone e ti si attacca con la colla vinilica e tu la guardi e…la guardi e…la maggior parte delle volte ti riscopri figlia dei fiori, adepta di Ghandi,  nipote del massimo esponente della spiritualità, della non violenza, “dell’inspiro ed espiro”, le sorridi e pensi che andrà tutto bene, poiché in fondo hai scelto tu di avere quella vita, consapevole (non troppo) delle rivoluzioni in atto, hai fortemente cercato e voluto proseguire la stirpe, senza alcuna pressione o condizionamento.

Sei stata l’artefice del tuo destino e lamentarsi non sarebbe opportuno e scorrono nella mente i titoli di coda di consigli mai richiesti ma ricevuti, in cui ti si ordinava di vivere appieno tutte le cose che “non potrai  più fare quando avrai i figli” ma tu, testarda e ingenua, ripetevi come un mantra il motto “con me e per me sarà tutto diverso”, con la presunzione di essere migliore.

Perché su, dai, raccontiamoci la vera verità, la realtà delle cose.

Tutti, almeno una volta, prima di avere figli o di pensare di averne, abbiamo pensato che la nostra vita sarebbe stata migliore-diversa-perfettamente organizzata e incasellata in fantastici post-it, dove le parole chiave ed evidenziate  sono  organizzazione e volontà,           in una sorta di pianificazione aziendale.

Tutti, almeno una volta, abbiamo osservato una madre e l’abbiamo giudicata, criticandone usi e costumi, modus vivendi e operandi, ergendoci detentori di verità assolute.

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Nell’immaginario collettivo le madri possono essere di due tipologie.

Tipologia 1: madre disperata e isterica. Occhi sgranati, occhiaie livide, capelli unti e voce stridula. Guarda l’esemplare procreato con disprezzo e rabbia, urlandogli contro NO AD MINCHIAM per ogni richiesta lecita o insensata che sia. Sono quelle che ti raccontano delle loro interminabili fatiche, sempre sull’orlo di una crisi di nervi.

E’ la tipologia di madre che mia nonna condurrebbe al patibolo, alla ghigliottina, al carcere duro a vita, perché se sei madre non puoi odiare tuo figlio; è scientificamente impossibile e osceno che tu possa provare sentimenti contrastanti per quell’essere così  tenero e innocente che hai custodito per 9 dolcissimi mesi. Madre snaturata!

Tipologia 2: madre yoga, crudista, buddista, “zen”ista,  quella fashion e impeccabile, onnisciente, sorridente e perfettamente in grado di farsi odiare da ogni genere vivente. C’è la salentina borghese hollywoodiana che fa colazione/brunch al bar con il latte di soia e il cornetto ai cereali vegan, in piedi sulle scarpe firmate tacco 12, mentre l’inglesina ultimo modello custodisce l’erede e c’è la salentina trentenne ma un po’ sessantottina peace and love, scarpe alla schiava, sciarpona, dotata di  passeggino devotamente riciclato o  fascia elastica african style, rustico e biRetta e bambino scalzo libero e felice. Senza vincoli, senza regole che creano dipendenza e abbrutiscono gli animi.

Per quanto tra le due tipologie sia in atto una sanguinosa guerra aperta, è innegabile che entrambe provino pura invidia vicendevole. E allora penso alla mia piccola rivoluzione, alla vita quotidiana e non immaginaria, penso alla verità vera. Credo che la più grande sconfitta per una madre, come donna e come genitore divenuto tale da poco tempo,  sia quella di lasciarsi sopraffare dai sensi di colpa, dalle etichette esistenziali esterne, dai condizionamenti e dagli inutili se non addirittura deleteri paragoni con mondi lontani dal reale.

Ogni madre dovrebbe avere il coraggio di:

non sentirsi “ contro natura” se pronuncia le parole: sono stanca;

esprimere il proprio disappunto se qualcuno elabora ipotetici vademecum sull’essere genitori perfetti con gli altrui figli;

sentirsi persa, isolata e maledettamente terrorizzata dall’incapacità di gestire un semplice pianto dopo ore ed ore ed ore trascorse con quell’esserino malefico che non ti dà tregua.

Smettiamola di dire che esistono le super mamme, le mamme speciali, quelle che crollasse il mondo riuscirebbero a mantenere l’aplomb.

Tutto ciò ha generato e continua a generare frustrazioni quando la normalità si capovolge e diventa “straordinario” .

Ogni madre dovrebbe avere il coraggio di piangere e non per questo sentirsi meno madre e allo stesso tempo ridere, ridere a crepapelle quando si arriva allo sfinimento, quando i polsi non reggono più neppure un granello di sabbia, quando è dal giorno precedente che la tua pelle non vede né  l’acqua né sapone, quando il seggiolone è diventato un campo laser game, quando ti cadono i capelli perché gli ormoni dell’allattamento hanno devastato tutto e credi che il più grande atto rivoluzionario sia quello di andare al parrucchiere e tagliarti la lunga treccia e colorarti i capelli di rosa, in quei momenti,  sì  è lecito che nella tua mente vaghi quella  tragicomica domanda: chi me l’ha fatto fare?

Ogni madre dovrebbe avere il coraggio di  pronunciare tre parole: non ti sopporto, perché è nella fase successiva, all’avvenuta  liberazione, dopo la presa di coscienza che qualcosa in te non sta andando, dopo la momentanea follia, è lì che arriva la consapevolezza della grandezza di quello che stai facendo, di quello che sei diventata ma soprattutto della donna che vorrai essere.

Sì, ogni donna diventata madre resterà pur sempre una donna e non dovrebbe dimenticarlo.

Una donna diventata madre non amerà meno i propri figli se vuole sentirsi ancora bella, dentro e fuori e se per farlo ha bisogno di andare in posti frivoli come centri estetici, parrucchiere, nutrizionisti o negozi, ha tutto il diritto e dovere di chiedere un aiuto, un sostegno, un banale supporto anche solo per lasciare i propri figli nelle mani di qualcuno di cui si fida.

L’amore, quello vero, incondizionato, sconfinato, non richiede l’annullamento dell’esistenza, non necessita dell’annichilimento della personalità.

L’amore per un figlio è totalizzante, ma per ciò che riusciamo a dare, poiché reale è l’espressione “morirei per lui o per lei”.

E quindi non posso e non devo sentirmi meno madre se dimentico di esserlo una volta entrata nella scuola di danza, mentre indosso un body, mentre i piedi calpestano il parquet, mentre la mia anima si libera ed esplode e mi sento viva.

Le passioni viscerali, quelle che fanno vibrare le corde dell’animo umano, quelle senza se e senza ma, non possono venire meno, non possono essere tralasciate, poiché sarebbe come mostrarsi a coloro che abbiamo generato monche, a metà, non sincere, incomplete.

Se rinunciassimo a ciò che ci fa stare bene rinunceremmo a noi stesse, costruendo intorno a noi una fortezza insidiosa, un muro di spine e guarderemmo un giorno la nostra vita come quella di un altro, vissuta passivamente per una rivoluzione che forse non avremmo voluto fare.

Lo spazio vitale.

Ed è per questo che, nel 2016, appare stridente e anacronistico sbalordirsi se una madre decide di tornare al lavoro o trovarsene uno, lasciando il proprio figlio presso strutture adeguate, dopo un congruo periodo di congedo di maternità.  E’ lo spazio vitale. E’ la concentrazione di mille lotte che altre hanno combattuto per noi.

E’ la realizzazione di un diritto ma soprattutto di un dovere, quello di permettere a colui o colei che abbiamo generato di godere appieno delle possibilità che la vita offre e quindi un’istruzione adeguata, passioni da coltivare e una dimora e sì, queste cose hanno un prezzo e un valore, al di là della spiritualità.

Ed è per questo che, se la mia anima danza o scrive o crea e dimentica il mondo attorno a sé, si riempirà di gioia e prenderà fiato e questo produrrà qualità sul tempo da trascorrere con mia figlia, alla quale ho promesso questa sulla quantità.

Così passerotto della mamma, se il primo giorno di asilo ti ho lasciata nelle mani di un’estranea, ingoiando pillole amare di tristezza e malinconia, l’ho fatto perché tu possa avere sempre o quasi, i miei migliori sorrisi, le mie carezze più dolci, le mie lacrime di gioia, insomma,  quel tempo migliore che tu meriti, figlia mia.

Nella vita ci sono momenti in cui ci vuole tanto coraggio per lasciare andare quanto per trattenere.

Un giorno saprai che, lasciandoti andare, la tua mamma ha vinto un’altra piccola battaglia, compiendo una banale rivoluzione che solo tu hai saputo realizzare. Lasciandoti andare è venuto meno un brandello di quel maledetto controllo che piano piano, insieme, riusciremo a strappare totalmente, filo dopo filo e ancora una volta ho capito che a insegnare le piccole cose che rendono bella la vita sei stata tu.

 

 

 

 

 

 

15 Gen

Prima puntata della serie: UN POSTO AL BUIO.

Passata la festa, gabbato lo santo.

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Tutti, almeno una volta nella vita, cadono tra le braccia della morte, attenta scrutratrice dei suoi figli. Solo pochi, risorgono dalle proprie ceneri.

La mia morte provocò fenomeni sonori e luminosi pari a quelli dei fuochi d’artificio che avrebbero acceso in onore del Santo, venerato per tre giorni nella mia città, a fine agosto.

L’avvio del primo razzo è sempre stato incerto. Girano leggende e punti Snai ambulanti, persino sul luogo dell’accensione. L’unica certezza resta il numero di serie che faranno esplodere. Ancora oggi ci sono intere famiglie sedute in auto, in attesa di un bis dell’ultima serie, sempre più folkloristica della prima. Non se ne fanno una ragione.

La mia morte, dicevamo, provocò sconcerto, sgomento,disapprovazione financo scandalo. Fredda, fredda come una morta viva lo sono sempre stata. Ma questa volta mia madre, toccando come era solita fare le estremità del mio corpo, si rese conto che ora, ero una morta realmente morta. Iniziarono ad arrivare le prime telefonate sulla veridicità del fatto. La catena di Sant’Antonio è infallibile.

Minchia, comu fazzu moi, sta frisciu le marangiane*, ca stasira quiddri olenu cu mangianu, poi ede propriu festa, le tradizioni tocca se rispettanu, puru pe li cristiani,sennò ce hannu dire, ca nu onoramu lu Santu nosciu? Vabbene, alla morta ne damu lu cambiu, tie spiccia cu cucini, ca poi me raggiungi.

La sfilata di zie e prozie sino alla terza generazione pareva la sagra del gusto e dei sapori di qualche paesello vicino, profumi e odori della tradizione e boccucce di rosa che cantano lamenti funebri. Battendosi il pugno chiuso sul petto, percosso e scosso da mani di donna del sud, si agitano e sventolano il fazzoletto bianco, urlano e dondolano, perché la morte non ha rispettato il giorno del Santo e ha preso con sé una fanciulla e piangono ridono urlano a comando, raccontando ai nuovi ospiti quanto mi avessero cresciuta. Così, nella terra del morso e del rimorso, non poteva mancare il fenomeno delle chiangimuerti, generazione 2.0.

Con aria sommessa, ma con padronanza del rito, si avvicinarono a mia madre, pregandola di vestirmi “a modo”, di coprire con strati di cotone plurimi e abbondandi quelle ossa sporgenti e poco rispettose della gggente che mi avrebbe osservata.  La gggente.

Lu cunsulu, la consolazione dei familiari del defunto, fu esilarante e paradossale. Ceste di vimini dalle più anziane e contenitori doppia funzione freezer-microonde dal designer fashion dalle più giovani, decoravano la casa. Pasta fresca, brodo con galletto sgozzato in casa, all’uertu, parmiggiana del giorno di festa del Santo, pasta al forno, rustici leccesi, pasticciotti leccesi, frutta fresca di fine estate.  Cupeta e mustaccioli di santo Oronzo , come a ricordare nuovamente quanto fastidio avessi dato, terminando la mia breve vita proprio in quel dì.

Gli uomini appartati fremevano come drogati in crisi d’astinenza. Si avvicinavano l’uno all’altro, gesticolavano nervosamente, bocche vicino agli orecchi chiedevano novità a chi godeva dell’auricolare, con smartphone furbescamente inserito nel taschino, per non dare nell’occhio.

fantozzi

Ancora nienzi. 11 fessa intra lu campu. Zero a zero. Che schifo, morti viventi, un insulto al colore della maglia. Ci era iou l’allenatore, li cacciava tutti. A zappare!

Dice ca anu fermatu la processione. Il don è indignato. Questa morte non ci voleva. Giungono giornalisti e presunti tali a intervistare il parroco della Chiesa matrice. Uomini e donne interrompe la messa in onda della registrazione della puntata in cui la tizia di nome Sharon, con la mutina, furiosa perchè insultata, decide di uscire dallo studio, perché Maria, qui non ce sto a famme prendere pe il culo da queste qua, e tu, tu Chanell, tu se la peggio de tutte.

La testata giornalistica di Mediaset decide di dare spazio a quanto successo nella città barocca, affinchè luce sia fatta nel buio della morte, in rispetto del Santo gabbato. Queste le motivazioni apparse sul sito di Uomini e Donne fansclub. Mara Venier, ingessata per l’ottantesima volta, invita il suo inviato ad andare sul campo, per essere sul pezzo, perché la Rai, radio televisione italiana,non è certo da meno. La notizia prima di tutto. Su facebook prendono vita autonomi gruppi di protesta e di sostegno- vicinanza alla famiglia in lutto. Diciamo No alle morti di magre, perché se le cercano, community e Dietro l’apparenza si nasconde un’anima. Anche per quelle magre, community.

Ho sentito dire che andava a danza. Dicono che mangiasse solo carote. Che poi, che ti aspetti da quel tipo di mondo? Poverine, mi fanno pena.

E poi, senza un padre. Dicono che l’abbia abbandonata. Ma NO, è lei che ha deciso di non vederlo. Che scostumata.

Tutti quegli anni buttata sui libri, a studiare, per quelle lauree che mo, guarda che fine fanno quelli laureati. Non c’è più religione, signora mia.

 Però che invidia, guardala, ce l’avessi io un fisico così.

M A I    PE   JABBU.Oronzo-Canà

NU TE FARE Jabbu* modo di dire salentino. Si augura che una determinata cosa non accada mai alla propria persona.

*melanzane fritte per parmiggiana

…to be continued…