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05 Ott

Capitolo 34. L’età ibrida.

“Nonna, io non voglio che la mia mamma sia triste”.

La più profonda, impulsiva, pura e allo stesso tempo egoistica dichiarazione d’amore che mi potessero fare a pochi passi dai 34 anni, è arrivata da mia figlia, una mattina di agosto, quando il sole giocava a deformare le ombre sull’acqua verde-cobalto-tiffany di Porto Cesareo, mentre l’estate era una vecchietta arzilla che gioca a bridge e beve Martini.

Serve una grande quantità di immaginazione per capire la realtà e Arya, la mostriciattola dai capelli miele, una mattina di agosto ha compreso bene che anche le mamme possono essere strani esseri dagli occhi che assomigliano a pozzanghere come quelle di Peppa Pig.

In questa mia età ibrida, chediciamocelatutta, i 34 sono come i 15, i 26, un po’ carne e un po’ pesce, un po’ ristorante-pizzeria dove ti trovi a mangiare senza infamia e senza lode, un po’ come quando in autunno cadono le foglie, le caldarroste ti fissano da lontano ma tu hai ancora i teli mare in borsa, in questi 34 anni credo di non aver capito una beata ceppazza di ceppa riguardo a quel vortice libidinoso che chiamiamo vita.

Ma di una cosa credo di essere certa: la tristezza è necessaria così come è imprescindibile che i nostri figli possano leggerla sul volto di noi genitori, senza vergogna e senza turbamenti.

Si possono e si devono cercare vie d’uscita al dolore e per fare questo, occorre attraversarlo, nominarlo, scrutarlo, guardarlo da vicino e da dentro, raccontarlo tutto quanto, fino all’ultima parola, fino all’ultima goccia.  I bimbi sono persone, di statura estremamente bassa, ma persone. Ti costringono a dare un nome a quello che vorresti non dire entrando nel regno proibito del tuo Io, generando quel tumulto di sentimenti che invano provi a domare. 

Per lunghi anni sono rimasta in compagnia dell’idea di ciò che poteva non esserci più e di quello che non c’è, con l’illusione che bastassero ordine e dovere e binari già segnati, tanto c’è sempre tempo per vivere di ciò che bramiamo, ostinata a cercare un senso e un tempo che odia l’improvvisazione, il tempo che è speso a tenere stretto l’alone, l’ombra, il profumo.

“Le nostre paure sono draghi a guardia dei nostri più profondi tesori”.  L’ho letto una volta nelle mie bracciate nel mare aperto degli aforismi. Così tutti noi dovremmo avere la capacità insita di trasformare in forza la nostra debolezza. Mi sento un ramo che si immaginava forte ma che ha ceduto quando meno se l’aspettava.  Ho atteso troppo ciò che non c’è e ciò che manca, dimenticandomi di provare ad essere ciò che sento nel tempo in cui vivo.  Ora.  A 34 anni è giunto il momento di capire che quando uno cade fa meno fatica se  tende una mano e afferra stretta quella salvifica. Che nessuno si salva da solo già lo sappiamo, ma scegliere da chi e da cosa e con chi farlo è un capitolo da scrivere.  A volte mi chiedo perché dovrei avere paura smisurata della morte visto che non c’è più morte dopo la morte e che non potrò mai sapere se ci sia qualcosa di più pauroso assai di questo e alla domanda rispondo che dovrei fare amicizia con questo concetto, come quando Arya scioglie le briglie della timidezza misto studio clinico della personalità altrui e prende per mano un bimbo incontrato due minuti prima, dichiarandogli amicizia eterna.  

Non voglio che la mamma sia triste. Da quando abbiamo incasellato e stereotipato la tristezza, rifiutando bruscamente persino di nominarla come fosse sinonimo di morte interiore? I bimbi non conoscono i nomi delle loro emozioni e quando sono piccoli piangono a prescindere, nel bene e nel male loro piangono. Se ci pensiamo, piangiamo da quando veniamo al mondo, la prima espressione verbale, il primo sentimento, la prima forma di liberazione e libertà è avvenuta tramite ciò che invece adesso tendiamo a celare, dissacrare, cancellare.

La mamma, cara Cosetta, mostriciattola dai capelli miele, vorrebbe tanto lottare contro i kakamora dell’anima sua, i piccoli pirati guerrieri di noci di cocco, dalle facce spaventosamente buffe. Muti, comunicano battendosi il petto a ritmo. Tutte le volte che vediamo Oceania/Moana, tutte le trilionesime di volte, resto ammaliata dal coraggio puro e autentico di Vaiana, dalla prontezza che ha avuto nel partire in compagnia di un pollo per affrontare l’Oceano e trovare Maui, il semidio.

 Ci vuole coraggio ad avere coraggio. Ci vuole coraggio a guardare in faccia i kakamora dell’anima mia per accorgersi che il vero vulcano esploso sia io.  Una bomba di lava. Magma. Colate dagli effetti devastanti.  Esplosiva ed effusiva insieme.

L’età ibrida si porta dietro la consapevolezza che la felicità sia estremamente sopravvalutata, assolutizzata, estremizzata, santificata a tal punto che è quasi sempre impossibile stringerla forte.

Falsifichiamo la realtà modellandola come la plastilina, copiando la forma di disegni già abbozzati da altri.

La felicità. Se non la provi, se non la ricerchi, se non la trovi, non ha senso vivere. È questo ciò che ci insegnano, ci propinano, ci costringono a sospettare.

A 34 anni voglio sottovalutare quella parola accentata. Voglio valutare altri tipi di sentimenti , ponderarli, invitarli a cena e chiacchierare con loro.

A 34 anni voglio inventare il sentimento della LUMINOSITA’. Tutti dovremmo essere pervasi dal fascio di luce luminoso in un momento della quotidianità e sentirci immensamente luminosi.

Mi illumino di immenso. Sublime forma di amore che ci è stata donata, se solo riuscissimo a catturare, ricevere, diffondere e utilizzare la luce delle cose animate e inanimate.

Una torcia fiammeggiante nel cammino oscuro dell’anima. L’età ibrida mi ha donato la capacità di imbarazzarmi davanti alla mia stessa cattiveria, di vergognarmi con estremo pudore del mio egoismo, di riflettermi allo specchio deformante della bruttezza dell’anima mia, con gli occhi neri di rabbia e silenzi assordanti che immobilizzano.

Questa età né carne né pesce mi ha regalato la consapevolezza che dove c’è luce c’è indissolubilmente anche ombra. A 34 anni sogno di sentirmi un libro di Arya dell’età della lallazione. Pochissime parole ma piena di colori. Non ho ancora capito come usare tutte le tonalità. Da tempo ho acquistato l’astuccio triplo maxi in offerta, quello più assortito, eppure la maggior parte dei colori sono rimasti intrappolati nell’elastico.

Tutto è filato più o meno dritto, fino a quando ho desiderato di non essere più una farfalla travestita da baco ma un baco vero. Da qualche parte, nel mio corpo covavo quel tipo di stati d’animo che ti consumano piano piano, internamente, come un morbo di cui non puoi informare nessuno perché altrimenti crolla tutto ma quell’abbozzo di mostro è sottopelle, come il “demo gorgone” di Stranger things, perché sì, di cose strane si tratta. La normalità non mi piace. La stranezza è il mio humus famigliare, mentre riconquistiamo il terreno che ci è stato espropriato, con ardente necessità di sopravvivenza, resistenza e la voglia matta di rimanere umani in situazioni difficili, persino quando il cuore diventava stagno, quando la solitudine causata dall’oscurità delle cose perdute, delle cose ricevute e di quelle abbandonate ti fanno precipitare nel tunnel dell’idiozia. Quella stranezza mi ha salvata, ha messo il corsivo sulla vita che è più forte di tutto. Sempre. Nella nostra carne abbiamo un sacrosanto compito: vivere.

Mi è stato insegnato che la purezza è negli occhi di chi guarda, come la stranezza a dirla tutta.

Mi è stato insegnato a non scusarmi sempre, ma a provare a dire grazie e sentirmi meno in colpa se ricevo molto più di quello che dono. Non voglio più accontentarmi di essere una pianta grassa, di crescere senza dare disturbo a coloro che amo, con un goccio d’acqua al ricordo e la luce naturale.

Diceva un foglio bianco come la neve: ‘Sono stato creato puro, e voglio rimanere così per sempre. Preferirei essere bruciato e finire in cenere che essere preda delle tenebre e venir toccato da ciò che è impuro.’ Una boccetta di inchiostro sentì ciò che il foglio diceva, e rise nel suo cuore scuro, ma non osò mai avvicinarsi. Sentirono le matite multicolori, ma anch’esse non gli si accostarono mai. E il foglio bianco come la neve rimase puro e casto per sempre – puro e casto – ma vuoto.

(Khalil Gibran) 

A 34 anni dico no al colesterolo, agli acidi ialuronici e alla trappola della purezza.

Voglio strappare quel foglio bianco come la neve rimasto puro per sempre e soprattutto vuoto.

Voglio essere fotografia a colori. Tutti i colori che esistono nel triplo maxi astuccio assortito. Tutti quanti. E’ in questa vita che siamo umani. E’ in questa vita che ho bisogno di sentire, urlare, restare in silenzio, piangere, ridere, dare, ricevere troppo senza imbarazzanti paturnie psicosomatiche, perdermi, trovarmi, essere trovata, essere ritrovata, cercata, voluta, desiderata e desiderare, amare, fare l’amore fino a quando le lancette diventano liquide, il tempo si scioglie, il mondo fuori non esiste, le stagioni si alternano e io leggera, stretta e protetta in un abbraccio che sa di infinito, nella più carnale essenza dell’essere umano, appunto.

Luminosità. Ad Arya farò inserire il grassetto a questo concetto. A sorprendersi per uno spicchio di luna dipinta dalla realtà nel cielo nero della notte; a commuoversi di fronte ad una palla infuocata che lentamente si immerge nel blu di acque cristalline; di nutrirsi di sorrisi condivisi, quelli che disegnano rughe sul volto, serrano gli occhi perché la luce che vi dimora quando si ride col cuore è troppo pura per il mondo esterno e va tutelata con l’anima e il battito del cuore. Gli occhi nascondono tutto e proteggono ogni cosa. Si illuminano quando si accorgono di essere testimoni della perfezione che la natura ha creato per noi, in una giornata di sole inaspettato, quando il silenzio è solo per orecchi pigri, ma tutto intorno è vivo e finalmente lo sei anche tu, vivo come lo scoglio che si asciuga a metà, il turista che si sorprende della rara bellezza che gli si apre dinanzi, come un sipario sul palcoscenico della più geniale opera d’autore, mentre il mare si conferma il tuo migliore amico e ti porge un saluto, chiamandoti a sé, anche se l’acqua è fredda e ci sei solo tu a nuotare, protagonista della storia più bizzarra che potessi scrivere. Luminoso è il tempo in cui ti imbatti in un paguro dalla casa maestosa e ti immagini tu stessa paguro.

Breve pausa – momento Alberto Angela-

Lo sapete che questi crostacei vivono portandosi dietro la propria conchiglia e quando crescono o incontrano nel proprio cammino una casa piùmiglioreassai, abbandonano la vecchia e si rifugiano in quella nuova, soprattutto nel momento di maggior pericolo? Io l’ho scoperto un giorno in cui ho abbandonato le mie armature e ho riso e pianto nello stesso istante, un giorno in cui sono stata musica, canzoni, testi, parole, cappello, cielo, azzurro, verde, blu, rosso sangue, un giorno in cui ho cercato di comprendere che i nostri figli non ci appartengono e la loro vita va attraversata come una strada con due marciapiedi vicini vicini ma con una spessa fessura.

A 34 anni continuo a pensare che Arya sia il libro più antico che potessi mai trovare, nel luogo più sacro e di estrema rarità. Intanto io sono labirinto, intricato ma colmo di peonie e tulipani, quando credi di essere alla fine ti ritrovi all’inizio della ricerca, con lo stesso bisogno platonico, con le vecchie e le nuove fragilità ma tanta musica e luce, famelica voglia di accartocciare gli occhi e trasformare la bocca in uno spicchio di limone.

Spesso l’uscita, la mia uscita è l’entrata in una sala di danza, il mio mondo perfetto, dove posso cadere, fallire, provare e riprovare e ancora fallire, esagerare, drammatizzare e sdrammatizzare, portare agli estremi corpo e anima mia, sentire la terra, bruciare e volare insieme, improvvisare e attenersi alla lettera agli esercizi.  Quando danzo non sono più una macchina, nessuna maschera, nessun senso di colpa, nessun desiderio di protezione, nessuna felicità falsata dalla felicità altrui, dimentico il mio nome e mi illumino senza che questo implichi sofferenza per nessuno, ma luce solo per me. Quando danzo il labirinto diventa un giardino segreto in cui dimorano le specie più delicate e originali. Si possono scombinare i piani, mettere accenti, farsi male, tatuarsi le note sui piedi e renderle animate con la magia di un passo, uguale per tutti, ma straordinariamente diverso per lo stile e l’intensità. Speciale.

Mamma, vorrei che tu facessi la festa dei gonfiabili per il tuo compleanno.

Arya ma la mamma è grande per questo tipo di feste, lo sai?

No, non lo sei, perché tutti possono divertirsi e salire sui gonfiabili, grandi e piccoli e io voglio che la tua festa sia bella perché tu sei bellissima.

Hai ragione, sai? Come sempre.

Voglio salire sul gonfiabile più alto e colorato che ci sia, chiudere gli occhi, salvare un pezzo di cuore, allontanare le paure e cadere giù, senza fretta, sentirmi viva ad ogni pezzo di pelle che scivola e odora di luce.

16 Lug

“SII REALISTA! CHIEDI L’IMPOSSIBILE”

Qualche giorno fa mi capitò di leggere una frase:

“Si vive con la speranza di arrivare ad essere un ricordo” e subito dopo l’occhio abbracciò un altro aforisma, di uno che insomma, di aforismi se ne intende: “Vivere è la cosa più rara del mondo. La maggior parte della gente esiste, e questo è tutto” – O. Wilde.

E mi sei venuto in mente tu.

Per 4 volte lo scirocco, umido, pesante, sfiancante ha portato con sé il 16 luglio.

Abbiamo smesso di cercare il senso. Da quando è scoppiata la morte, ho acceso una gigantesca miccia di voglia di vita. Io ti vedo. Sei lì, a sorseggiare il tuo ghiacciato mojito ne La Bodeguita, a la Habana Vieja.

Indossi i tuoi rayban , la barbetta incolta, la fede al dito, un signor sigaro in bocca e le mani sul tavolino riproducono i suoni della musica cubana che il bar propone.

Sei invisibile. Ma non assente. Sei vento.

Sei la luce tra le nuvole dopo la pioggia estiva.

Sei il signor silenzio.

Sei il mare a cui ho rivolto il mio sguardo nei giorni della tua malattia. All’alba. Arya cresceva nella mia pancia, come cresceva un dolore che ho accarezzato, come se non fosse mio nemico. Quell’ acqua mi cullava, come ho imparato a fare con mia figlia e come ha fatto la mamma con te, prima che la morte ti rapisse e ti portasse in quel posto di luce, colori, suoni e bellezza, da cui ci osservi e ci proteggi.

Aveva ragione Platone, sai? Siamo tutti Immortali nella misura in cui i ricordi infuocano l’animo di chi resta.

Così sei immortale, poiché conosco l’amore puro e incondizionato di un padre a cui poco importava se quella fosse la figlia nata grazie al suo pisellino.

Mi hai amata, senza se e senza ma. Senza preoccuparti che il mio cognome fosse diverso dal tuo.

Mi hai insegnato a cercarmi tra le righe di un libro ma al contempo, mi hai spinto a scrivere il romanzo della mia vita, offrendomi costantemente gli strumenti per mettere tutto nero su bianco, a mio modo.

Poiché il più grande segno che profuma di egoismo da parte dei genitori è la loro imposizione sui figli, a vivere come i primi desiderano vivere.

Invece tu vento, hai reso carne il verbo tentare, seguito da fallire. Non importava per te.

Si poteva fallire, anche meglio, sempre di più. L’importante  era rischiare, lavorare duramente, tenacemente, sino a notte fonda, sino a quando gli occhi chiudevano le serrature della concentrazione e i polsi impietriti dall’uso del mouse sventolavano bandiera bianca e poi, abbracciare il meritato riposo svegliandoci all’alba, pronti per un’avventura,  on the road.

4 estati fa abbiamo capito che la cosa più terribile che potesse capitarci fosse quella di voltare le spalle alla paura, stringendo gli occhi sino a farci male, pur di non vederla.

Non abbiamo permesso alla morte di consegnare la cosa più preziosa che abbiamo ad alcuno.

Persino quando non eri tu la persona a cui era collegato il concetto di lasciarci per sempre fisicamente.

Non c’è idea cui non si finisce per fare abitudine. Così ci siamo sporcati, noi 5 superstiti e abbiamo corso.

Poi fermati, insanguinati, abbiamo masticato il miele e la cera, abbiamo sputato rabbia, ingoiato false promesse, aiuti decantati e mai giunti, incomprensioni. Siamo ripartiti, contro il tempo e per il tempo.

Ci hai insegnato, a tutte noi, le donne della tua vita, che le parole sono importanti a tal punto che ad ogni parola corrisponde un’azione e reazione. Se dico che non so fare qualcosa, mi assale il tuo ricordo che si fa presenza nell’azione che andrò a compiere, annullando la pigrizia e rispondendo alla silenziosa domanda che mi avresti posto: sei sicura di non saperlo fare, se non ti sei mai avvicinata al problema per risolverlo? Ci hai mai provato prima di pronunciarti al negativo?

La nostra vita ha reso possibile credere a qualsiasi cosa, soprattutto a quelle incredibili.

Siamo pozzi riempiti pregni di acqua del tuo amore e sapere.

Il laboratorio della nostra memoria è sempre a lavoro. Il dolore non è più necessario. Abbiamo smesso di accusare il destino che ha giocato una brutta partita con noi. Ci stiamo incontrando nel ricordo, come quando nella sala studio mi venivi a bussare, chiedendomi per favore di smetterla di svegliarmi così presto per studiare, che avrei potuto prendermi una pausa, che non era sano ciò che facevo, che mi avrebbe spento piano piano, che un 9 al compito di storia o un 30 all’ esame di diritto erano importanti certo, ti inorgoglivano, ma lo era di più l’attitudine al rischio, a pretendere ciò che meritavo, a far sentire la mia voce.  Ci hai insegnato a difendere la nostra spontaneità e nello stesso tempo a non farla schiacciare da nessuno. Ci hai dimostrato che occorre perdersi per trovare percorsi migliori, come quando litigavi spesso con la mamma sul percorso stradale o raccontavi la storia di Gesù per arrivare ai tempi moderni.

Senza accorgercene, senza premeditazione, ognuno di noi ha preso il tuo posto, in alcune delle cose che eri solito fare per noi.

Sei nel caffè. Lo bevo senza zucchero per assaporarne l’aroma, come facevi tu.

Tua figlia la menzana e tuo genero l’ingegnere,  lo preparano nelle occasioni di riunioni famigliari o agli ospiti di casa.

Sei nelle favole che raccontiamo ad Arya, accompagnandola nel mondo della fantasia e delle emozioni, donandole quel tempo prezioso che tu hai fortemente voluto ritagliarti per noi.

Sei nella Toyota Rav, nel suono del suo clacson, nella cintura che allacciavi con una mano già al volante, mentre eri in moto e che mi dava un fastidio esagerato.

Sei nella fermezza della piccola Chiara.

Nel suo amore per la scienza, per la logica, per la risoluzione del problema a tutti i costi.

Sei in Andrea, nelle sue espressioni facciali, nel suo modo di affrontare la solitudine, nella sua bravura ad orientarsi nei percorsi che la vita ha delineato per lei o che ha disegnato sulla sua mappa.

Stanno crescendo divinamente. Le cicatrici le hanno rese decisamente più donne e nello stesso più bimbe e sono certa che sia merito anche tuo, della persona che sei stata, non solo come padre ma come uomo e dello stile di vita dignitoso che ci hai donato.

Sei nelle mie passioni che odorano di ossessione, tutte.  Sei nella danza, tu primo tra tutti a credere più di me stessa che fosse arrivato il momento di chiamare per nome questa passione, di darle forma,   di non arrendermi di fronte ad un rimorso dell’incompiuto, come una melodia lasciata a metà, un pianoforte senza diesis.

Sei nella reflex, nella voglia di offrirmi l’arte a portata di mano, per sfruttare le mie capacità. Per guardare il mondo con i miei occhi e renderlo immortale a mio modo, con uno scatto senza tempo e spazio.

Sei nei biglietti di viaggio, nella scoperta di nuove culture, nel confronto, nella voglia di sentirsi sempre viaggiatore e mai turista.

Sei nelle espressioni verbali che qualche volta proferisce “marito”.

Poi c’è la mamma.

Ci siamo illusi e arrogati il diritto di non essere al suo fianco, ma di essere il suo fianco, di essere le  parti mancanti del suo corpo, di essere la sua medicina e di contarle le pillole.

Il tempo ha strappato i falsi super poteri e ha reso visibile la realtà che chiede l’impossibile e noi ce la mettiamo tutta.

E’ lei l’ “impossibile” su due gambette che cammina goffamente ma a schiena drittissima e testa ancora più su.

Ci sono quei periodi dell’anno in cui mi assale l’insensata voglia di abbattimento della struttura emotiva che mi pervade per mesi,  e mi lascio dondolare, seduta sull’altalena dei ricordi.

Così realizzo quanto sia facile e apparentemente figo sentirsi come una matita dalla punta sempre temperata in un barattolo di matite senza punta.

Ma con uno sguardo più attento e profondo ci accorgeremo che quest’ultime hanno scritto, disegnato, riscritto, miscela di grafite e argilla, grezze, spesse, che diventano di nuovo vergini, pronte a lasciare un nuovo segno, a sporcare le mani di nero, pregne di carbone.

Forse lei, la tua lei, non è mai stata la matita dalla punta sempre perfetta, e sinceramente, esclamerei, “che culo!”

A tua nipote ripeto come un mantra:

Fa che la tua vita non sia un’edizione economica. Rendila un capolavoro, un’edizione limitata, una carta pregiata su cui disegnare opere d’arte, perché ogni mattina al suono della sveglia, imporrai a te stesso di fare qualcosa che ti spaventa, scoprendo l’infinito e l’infinitamente piccolo che risiede in noi, decidendo cosa fare col tempo che ci viene donato.

Come diceva il maestro con cui ho iniziato a scriverti, il “tipo degli aforismi”:

“Giocare con il fuoco ha il vantaggio di non farci scottare mai. Si scottano solo coloro che con il fuoco non sanno giocare”.

Ora ti lascio gustare il tuo mojito. Saziarti di tramonti. Cibarti di musica. Vestirti delle nostre anime che si spogliano davanti ai ricordi indissolubili e ti rendono mito.

 

 

 

 

15 Feb

Avrai vento tra i capelli.

Consiglio la lettura, ascoltando:

Il tuo respiro è una bizzarra e incantevole sorpresa, un per- sempre istantaneo che viaggia sul treno dell’irreale.

Hai visto come ci sorprende la vita? Sfacciata giocatrice di dadi con la morte, ha vinto lei, hai vinto tu, cinquantenne tutta cromata.

Usignolo pronto a morire.

Sei come la gatta che alberga sull’ uscio di casa, appollaiata sul tappeto senza timori di venir scacciata, zingara gitana dalle 7 vite, sei nata fenice, come racconta tua madre.

Mia nonna.

Tutti ti credevano morta ma sei venuta alla luce, testarda e prematura, fragile d’aspetto ma aquila nell’animo.

Ci siamo preparati una vita intera alla tua morte.

Ti bruci. Ci incendi. Esplodi. Saltiamo. Vedi la musica. Ascolti la danza dell’impossibile che diventa possibile e rinasci. E viviamo. In ogni fase. Lo fai da 50 anni.

Per i prossimi 50 anni, ti propongo una lista di “cose” che avrai, tu donna immortale, poiché  la nonna ha ragione, sempre ragione: ti danno per morta ma tu sei più viva tra i vivi che si fingono tali ma muoiono ogni istante nell’oblio dell’apatia della sopravvivenza.

Avrai l’alba più cupa, desolata, in cui i brividi svaniranno quando le scintille dei piedi gelidi riscalderanno il piumone troppo grande per te, laddove ti perderai tra i tuoi sogni interrotti da ricordi che ti squartano, ti accartocciano, ti strappano la carne, ma ti alzerai senza ferite aperte, senza sangue sgorgante, solo cicatrici che ti schiaffeggiano sull’ altare della quotidianità, così che nessuno possa accorgersi di nulla.

Ma quel nessuno non siamo noi. Quel nessuno è tutti. Tutti non siamo noi.

Avrai superficialità, inquietante cattiveria.

Avrai sguardi, occhi pietosi che impietosiscono.

La compassione è regale. La pietà è negli occhi deformanti di chi guarda. Di chi aspetta che l’altro, qualsiasi altro, porti la croce più grande della propria, così che possa finalmente sguazzare nel mare dell’ipocrisia.

Il nostro è un altro mare.

Tua nipote è figlia del vento e del mare. Quello cristallino, puro, trasparente nei giorni di tramontana, fermo e immobile, ma guerriero, arrabbiato e rabbioso in quelli di scirocco.

È quello il nostro mare.

E da esso ritornerai. Arya ti condurrà da lui. Sedute. Mano nella mano. Ad ascoltarlo.

Avrai solitudine.

Avrai porte chiuse.

Avrai indifferenza.

Avrai diffidenza.

Avrai il tempo che non c’è mai, nel momento in cui è necessario ci sia.

Avrai pillole da gustare come olive in un Martini.

Avrai freddo a luglio. La tua pelle si gonfierà. Avrai chili in più e chili in meno.

Avrai lacrime. Buio. Fallimenti. Cadute. Capelli nella vasca.

Avrai turbanti rosso fuoco, il tuo colore preferito, perché tu lo sai che non esistono né il bianco né il nero, persino quando il tunnel sembra impraticabile.

Sarai attraversata dalle gocce d’acqua rimaste in sospensione, dopo la tempesta, e sarai tu l’arcobaleno.

Avrai sonno e insonnia.

Avrai vaffanculo da regalare ma anche da ricevere.

Avrai subdole debolezze. Muscoli molluschi. Braccia inermi. Torace plastificato.

Potrai restare immobile.

Saremo noi le tue braccia. Custodiremo le tue ali. Le spolvereremo, faremo in modo che restino forti e libere.

Disinfetteremo le ferite, laverò il tuo sangue, tamponerò con delicatezza i tagli. Giorno dopo giorno. Medicazione dopo medicazione, il tuo dolore sarà incerottato, coperto, sterilizzato.

Avrai la nausea senza essere incinta.

Avrai giorni di inappetenza e giorni di bulimia.

Avrai chi ti comprerà il gelato a mezzanotte passata, in estate e in pieno e rigido inverno piovoso.

Avrai chi ti accompagnerà in aeroporto, in silenzio, quello che ti aspetti e speri.

Le parole sono spesso assordanti.

Avrai manie di persecuzione. Smania di perfezionismo.  Eccessivo ottimismo e iper-attività.

Avrai lentezza. Coperte sul divano. Specchi in cui riflettersi e riflettere, insieme, sul senso vero della bellezza.

Avrai giorni da donna.  Banali. Semplici. Litigi. Urla strazianti. Urla mute. Sogni infranti. Sogni in costruzione. Sogni altrui che diventano propri. Scelte. Sbagliate. Prese. Perse.  Egocentrismo.  Altruismo. Eccentrica visione del sé in versione nuda e cruda.

Avrai da dire Grazie. Avrai da scostarti. Sarai altro. Altrove. Sarai i luoghi che visiterai. Cambierai pelle ad ogni scoperta che aprirà il varco dinanzi a te, tu unica compagna di viaggio che hai scelto per trovarti e ritrovarti.

Avrai l’odore della gente che incontrerai. Lo sguardo dei bambini che accarezzerai, tu bimba tra i bimbi, piccola tra i grandi.

Avrai incertezze. Alture. Montagne. Valanghe. Noia.

Sarai etichetta, avrai etichette: ragazza madre, moglie bambina, capo-donna, venuta al mondo dopo il coma, guerriera contro la bestia, vedova, ancora guerriera.

Saremo il tuo scudo. Noi 5. Le tue polsiere. Le tue cavigliere. Fianco contro fianco. Saremo la tua memoria. La tua agenda. I tuoi paracolpi. La lampadina accesa di notte contro i mostri. La ragione per cui puoi decidere di mollare. La ragione per cui hai deciso di lottare. Il cuore. Saremo le tue mamme. Le tue suocere. Le migliori amiche. L’uomo che hai perso. L’uomo che avrai.

Avrai spalle su cui abbandonarti. Spalle che vengono da lontano, che fanno chilometri per viverti, anche solo per 24 ore, per rendere omaggio alla tua forza e debolezza insieme, per scrutarti nell’anima e farti capire che non si è mai soli, che forse ci fa comodo incolpare gli altri della loro poca comprensione e assenza, ma la verità è che siamo umani, incredibilmente umani, e viviamo la bellezza e l’inferno ogni minuto, ogni secondo e i tuoi 50 anni racchiudono l’incredibile certezza che la vita sia vita, banalmente vita a cui possiamo dare milioni di sensi compiuti se solo riuscissimo a non essere così pregni di rabbia, di sensi di colpa, di rancori e incompletezza.

Così ti auguro, mamma, piccola guerriera come ti appellano gli altri,

di prendere in mano il tuo presente. Tutto quanto. Le nostre ali ce le stiamo costruendo, pezzetto dopo pezzetto e non abbiamo più paura, di nulla, o in verità, abbiamo così tanta paura che non la sentiamo più.

Ora tocca a te.

Non avere più paura per noi. Non avere più rabbia. Sii l’imprenditrice del tuo essere. Del tuo corpo.

Rischia.

Punta tutto sul piatto del presente, perché:

Avrai chignon da pettinare.

Fiabe da leggere.

Tabelline da ripetere.

Perché a cui dare risposta. Cartoni animati da vedere, milioni e milioni di volte.

Confidenze da custodire. Lacrime da asciugare. Sorrisi da lucidare. Abiti da scegliere.

Abiti da provare. Avrai musica. Sarai musica. Avrai ninna nanne. Idee. Progetti. Avrai debiti. Avrai crediti. Avrai una tela bianca su cui dipingere. Avrai la tua adolescenza interrotta. Avrai tiramisù da preparare. Avrai l’onnipotenza. Avrai vento tra i capelli. Inanellati.

Non sarai speciale per le malattie che ti abitano.

Lo sarai per il fatto che avrai vissuto senza pensare che vivere una sola volta sia troppo poco, ma abbastanza, se avrai mantenuto le promesse, colto le opportunità, superato il dolore, accettato le sfide, cambiato il destino, svelato bugie, fatto danni, riparato i cocci.

Avrai l’immortalità.

Immortale è colui che si strappa il cuore, ne fa coriandoli e li sparge sull’ anima di chi ama incondizionatamente.

Immortale è la donna, ogni donna, che ha il diritto di lamentarsi.

Cinque infiniti e immensi minuti di perdincibaccomannaggialapuffettabuffadelpisoloinbruttitononcelafacciopiù,

superati i quali quel tempo è sprecato, come l’auto-palpazione con unguenti mistici che ci propiniamo 20 minuti prima che si apra la stagione dei costumi da bagno, illudendoci che la cellulite possa andare via e che sia applicato il filtro Chiara Ferragni.

Tempo sprecato. La cellulite è dietro. Ci viene il torcicollo a scrutarla.

La bellezza è avanti. Davanti. Dentro. Abbiamo l’immortalità.

Avremo l’immortalità. Come la mia mamma. Super figona di cinquantanni tutta cromata che tiene botta.

e come diceva quella stra figa di E. Roosevelt:

“ogni giorno, fai qualcosa che ti spaventa”