50 sfumature di CANCRO
Ho scritto questo post nella mia testa milioni di volte, mentre cammino, mentre dormo, mentre mi lavo, mentre la vita svolge il suo lavoro di indomabile leonessa.
Eppure c’è voluto tempo, pazienza e un filo di distacco prima che le mie mani potessero digitare sull’inchiostro virtuale.
Chiunque voglia intraprendere la lettura di quello che seguirà, sappia che proverò fortemente a lasciare all’angolo della vergogna l’amarezza, la delusione, la rabbia, provando a rispettare tutte le credenze, le fedi, i riti, e soprattutto , è bene che sappia che ciò che sarà scritto è frutto di una personale esperienza, la mia, che non è la verità vera assolutamente e universalmente incontestabile.
Proverò a non abbandonare sul guardrail del disappunto, il briciolo di auto/ironia che è parte integrante di questo blog e non me ne vogliate se a volte questa strana maniera di scrivere vi suonerà stridente.
Da qualche giorno, la mostriciattolina di 10 mesi emette alcuni suoni che ricordano vagamente la parola papà che però assomiglia anche a pappa e così circola uno strano gioco domestico in cui proviamo, ogni giorno e per tutto il giorno, a farle pronunciare parole come termosifone, sternocleidomastoideo, massetto, stoccaggio, mammata (tutti termini che attualmente fanno parte del nostro lessico famigliare).
Non sarebbe affatto strano però, se un giorno, tra una lallazione e l’altra dicesse a chiare lettere la parola: cancro, c a n c r o, forte, scandito, a suoni aperti, senza usare metafore, sinonimi, giri di parole che non conosce.
Al bellissimo gioco del “diamo un nome alle cose” dovremmo partecipare tutti, come quando la sera prima del telegiornale ci mettiamo a braccia conserte e in pantofole davanti alla tv e le sappiamo tutte ma proprio tutte le parole della catena.
Nessuna intesa finale avrebbero i campioni in carica se per rispondere correttamente dovessero suggerire in pochissimi secondi : malattia a cui non si riesce a dare il giusto nome.
Il male del millennio, il mostro, l’entità oscura, il buio, la bestia indomabile, l’intruso, l’estraneo, lo squalo…
Tutto pur di non scrivere, leggere o pronunciare la parola cancro.
Cancrocancrocancrocancrocancrocancro.
Paradossalmente, “morte” ha meno sotterfugi e rotatorie quando deve apparire alla ribalta.
Ultimamente poi, dilagano notizie, condivisioni allarmanti, giornate per la memoria di qualcosa o qualcuno davanti alle quali mi sento impotente e rabbiosa.
Qualche giorno fa ho aperto il magico mondo di facebook e per ore mi sono scervellata sul motivo per cui moltissimi miei contatti (uso questo termine volutamente) avessero condiviso una loro foto in bianco e nero per una sfida accettata. L’idea che fosse qualche minchiata relativa alla sensibilizzazione per qualcosa mi si era pure balenata, ma ho cercato di pensare positivo come sempre e dare una chance alla ragionevolezza e al buon senso. Ma niente. Queste ultime due cose erano al bar a prendersi gli ultimi caffè con il latte di mandorla visto che “winter is coming”.
La condivisione di una foto in bianco e nero ha senza dubbio alcuno costituito un importante passo dell’umanità verso la conoscenza, l’informazione e la sensibilizzazione su un argomento assolutamente tabù, talmente tabù che forse neppure chi si è fatto un selfie con il muso da gallina per accettare una sfida sapesse realmente il significato di quella foto postata.
Ora, riconoscendo la buona fede di molti, ipotizzando (perché a pensar male si fa peccato) l’onestà intellettuale di chi gestisce queste giornate di sensibilizzazione contro il cancro in tal maniera, sarebbe opportuno chiedersi se chi ce l’ha, il cancro, ha postato qualche sua foto o si è sentito meno solo o meno malato grazie a questo meccanismo di condivisione delle manine laboriose che tante cose sanno fare.
Ma poi? Che tipo di sfida avremmo dovuto accettare?
Parliamoci chiaro. A sentirsi meno soli e in pace con il cosmo, con il karma, con i sette dei, con lo spirito yoga del mercoledì sera, siamo noi, non i malati, siamo noi che scarichiamo la coscienza sperando di fare opera buona e pia, sicuramente sentita dal cuore, perché magari colui che ci guarda da lassù, l’Immenso, quando sceglierà a chi dare il dono della malattia, salterà il turno.
Siamo la società dell’onniscienza, della tuttologia, della dietrologia, della meta-scienza e meta-medicina, della meta-comunicazione; condanniamo alla gogna chi non accarezza un cane che è il migliore amico dell’uomo meglio di un umano ma non riusciamo a guardare negli occhi, dritto dritto, chi esce da una seduta di chemioterapia, e parliamo di oscurità, perché è più semplice, è più comodo, perché al buio siamo tutti uguali e se siamo tutti uguali non ho bisogno di confrontarmi, non devo sforzarmi di comprendere la tua situazione, perché non voglio rattristarmi, è già tanto amara la vita mia, ho già tante croci io che neppure si contano più.
Così accetto una sfida, passivamente.
So che esiste questa cosa, brutta brutta, che è meglio non dire il suo nome come Voldemort, perché anche solo a pensarci, te la potresti chiamare e se un mio amico che ha preso tutti 30 agli esami all’università oppure quello che le sa davvero tutte perché legge tanti libri, quindi è bravo, condivide la notizia sensazionale contro il capitalismo, contro l’industria farmaceutica e contro i medici che hanno preso la laurea per sport , allora vado in Sicilia e mi compro ettari di terreno di limoni e me li faccio inviare ogni giorno, all’alba, così appena sveglia “ungime tutta” di acqua tiepida e limone, e quasi quasi mi faccio pure un bel bidet, che non si sa mai, magari prevengo pure là sotto. E poi, perché dare soldi a questa società, a questo sistema sanitario che va a rotoli? Perché dovrei piegarmi ai voleri di medici che vogliono solo il mio piccolo stipendio per fare delle analisi dai termini incomprensibili, quando si sa che la salute passa dall’animo, come dice sempre il ragazzo della mia amica che frequenta quel corso di meditazione il sabato mattina, così la sera sono in grande forma, in tutti i sensi e posso tranquillamente farmi il giro dei locali, meglio dove si fuma e si beve con poco, anzi dove me “fazzu a stozze”, perché la vita una è ed è meglio goderne appieno.
Se le giornate di sensibilizzazione contro il cancro servono a chi il cancro non ce l’ha (chi è malato è sensibile all’argomento ogni istante della propria vita e spera, a volte, di dimenticarsene durante la giornata) la vera sfida è quella di chiamare la propria ginecologa e prenotare un pap test, un’ecografia, una visita di controllo. La vera sfida è la conoscenza. L’informazione, quella scientifica, quella incomprensibile ai più , certo, ma che potrebbe essere capita se chiediamo di farcela spiegare, da coloro che hanno studiato e dedicato un’intera vita per questo. Quello che noi possiamo fare è lottare contro l’ignoranza che dilaga, contro le false fedi, contro il MedioEvo che imperversa e crea oscurantismo e contagia.
La sfida è quella di sapere che di cancro non ce n’è uno, che non sono solo le donne ad ammalarsi, che il cancro è uomo, donna, bambino, che la vita di un malato di cancro non è nera, ma ci sono tante, molte sfumature e non sono rari gli avvistamenti di caleidoscopi.
Questa storia dell’uguaglianza ci sta letteralmente sfuggendo di mano, rivendicandola e applicandola in contesti decisamente sbagliati. La diversità, da qualunque ambito provenga è invece una ricchezza e a volte la retorica gioca a nostro favore.
La quotidianità di una famiglia in cui esistono componenti malati è evidentemente diversa da quella di una famiglia “sana” e non è detto che tra le due quella meno sorridente sia la prima.
Molti hanno timore ad “avvicinare” e avvicinarsi ad un malato di cancro perché sostengono di non avere i mezzi o di non riuscire a creare empatia con chi soffre, perché si guarda negli occhi un morto che cammina.
Sappiate che vivere con uno di loro, con questi alieni arrivati sulla terra per colorarci le nostre giornate di grigio, (tenetevi forte) è un privilegio.
Esiste una regola che da tempo mi sono data, frutto degli insegnamenti degli antichi tramandati dai nonni, al fine di galleggiare nelle acque profonde: l’erba del vicino non è sempre più verde della propria.
Se abbiamo mal di testa, se siamo stati licenziati, se proviamo sofferenza per qualcosa, abbiamo tutto il diritto di lamentarcene ovviamente. E’ raro e insensato distaccarci totalmente da ciò che ci accade ed è giusto sentire addosso il malessere.
Ma abbiamo anche il sacrosanto dovere di guardare da giuste prospettive, di porre dei limiti al vittimismo dell’”accade tutto a me”; abbiamo il dovere morale e sociale di fermarci, indossare gli scarponi e decidere da che parte andare. Scegliere.
Questa è l’altra vera sfida. Dobbiamo scegliere la strada da percorrere e in questo non siamo così tanto diversi da chi si ammala.
Si può intraprendere la via del vittimismo e quella della quotidianità reale, pungente, tremenda, oscura, scevra da immobilismi dell’unico stato d’animo che ci fa sentire potenti nell’impotenza, la quotidianità che è vita. Tutti dovremmo decidere da che parte stare.
Sani e malati. Vedo in giro molti più morti sani che camminano che malati morti che corrono.
C’è una frase che mi fa molto ridere: vivi ogni giorno da leone, come se fosse l’ultimo.
I malati lo sanno bene che potrebbe essere il loro ultimo giorno, ma la cosa sensazionale è che, a dispetto di chi malato non è, lasciano la filosofia, la retorica, il perbenismo fuori dai loro pensieri. Nel marasma della quotidianità, non c’è proprio tempo e modo di filosofeggiare e così vivono, vivono sul serio. E’ questa la più grande sfida: scegliere se vivere davvero o vivere la vita di altri pensando costantemente alla sottrazione, alla negazione, alla marea di cose che NON vanno. Per vivere davvero ci vuole coraggio, forse.
Provate a restare con gli occhi chiusi e per ore in una stanza buia.
Una volta fuori saremo accecati letteralmente e i nostri occhi faranno fatica ad aprirsi e a mettere a fuoco.
Se invece restassimo ancora dentro la stanza oscura e provassimo ad aprire gli occhi, riusciremmo ad abituarci all’oscurità , in grado di percepire quello che ci circonda, vivendo nella copia carbone, nella menzogna della vita che fuori scorre, nel bene e nel male.
Come possiamo fermarci a guardare il panorama, quando la scalata è faticosa, quando i muscoli cedono, quando la rabbia, il dolore, la sofferenza, il disappunto legano mani e piedi e non si riesce a salire in cima?
La vera battaglia non è tra vivere e morire. La vera battaglia è lottare con i mille volti di noi stessi, con gli spiriti malefici del corpo arrugginito che ostacolano la corsa; la vera battaglia è quella di non compromettere l’animo quando tutto è buio. In questo siamo tutti uguali. Malati e sani. Possiamo scegliere di mollare e possiamo scegliere di tenere tutto.
Come scrive Marco Venturino, Direttore della Divisione di Anestesia e Rianimazione dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) di Milano, “La malattia che entra nella giovinezza è come un camion che viene lanciato a tutta velocità in una cristalleria. Spacca tutto, infrange la danza di quei delicatissimi cristalli che ornano l’adolescenza: bellezza, fragilità, aspettativa, desiderio, sogno, ambizione, attesa, fiducia”.
Io quella cristalleria spaccata la conosco bene. Se tua madre si ammala quando tu sei solo una ragazzina egocentrica, borghese di città appena arrivata nel liceo figo, i delicati cristalli saltano e fai fatica a non pensare che potresti essere tu la causa del male oscuro.
Così arriva sparato un altro camion, forse ancora più subdolo, perché più pesante e veloce. Arrivano i sensi di colpa, giungono a spada tratta i cavalieri della rabbia, dell’odio.
Perché a me? Cosa abbiamo fatto per meritarci anche questo? Forse non siamo stati abbastanza bravi, meritevoli di altro che non sia probabilità, percentuali di morte.
Ognuno sceglie il proprio mantello dell’invisibilità oppure l’arma con cui proteggersi da questo nuovo esercito invasore. Io ho scelto entrambe.
Tanto invisibile e tanto perfetta da poter contrastare i sensi di colpa, tanto invisibile da voler appiattire anima e corpo pesando quel giusto per poter volare e posarmi sul fiore della bellezza eterea, da cui poter osservare la vita degli altri, tanto perfetta da voler proteggere i miei cari con l’unica forma che conoscessi: lo studio matto e disperatissimo.
La passione per la danza, l’amore incondizionato , il tempo e gli strumenti giusti di comprensione mi hanno abbracciata, mi hanno raccolta da terra e messa in piedi.
Così a mia figlia, un giorno, racconterò di quando la mamma ha sbagliato, ha commesso tanti errori, perché era arrabbiata.
Arya un giorno conoscerà e parlerà di cancro e non sarà macabro, affatto.
Arya vive e vivrà in un ambiente in cui si scherza sulla probabilità di morte della sua nonna, su quanti anni le restano da vivere, su quante sedute di radio o di chemio dovrà fare.
Arya riderà dei capelli della nonna che assomigliano a quelli di x-man, al termine della radioterapia e le dirà che è brutta e gialla. La prenderà in giro sulle caldane a Natale e sul freddo gelido che sente a ferragosto. Saprà rispettare i giorni neri come la pece, quando la voglia di mollare è pressante, quando la sofferenza tira la corda, quando la stanchezza la fa da padrone e chiedi se ne vale la pena. Saprà abbracciarla in silenzio. Saprà mangiarla di baci quando lo stomaco è chiuso. Arya sarà una privilegiata come la sua mamma.
Avrà i mezzi necessari per capire che non è colpa di nessuno se una persona si ammala. Capita.
A mia figlia racconterò del nonno che il cancro se l’è portato via, ma non è stata colpa di nessuno.
Lui avrebbe decisamente scelto la strada della scienza e dei sorrisi, dell’amore immenso che tutto crea.
E non è stato colpa di nessuno se in 20 giorni la malattia è stata più forte.
Mia figlia è una privilegiata. Conosce l’amore folle, immenso e immortale di chi, più di altri, sa sulla propria pelle che la vita è così, imprevedibile e nulla cambierebbe se passassimo l’intera esistenza accigliati.
La mia mostriciattola non si accontenterà mai delle briciole. Vivrà di esempi. La nonna le promette viaggi in posti meravigliosi, traguardi da raggiungere, mete da toccare. La nonna non è una bugiarda. Occorre pensare in grande con la consapevolezza che un giorno non è uguale all’altro. Ogni giorno ci rende diversi e non è detto che sia un male. Il malato e chi gli sta accanto devono imparare a conoscere la persona che dimora in loro, quella che è, per essere la versione migliore nel futuro.
Non c’è nulla di macabro o di oscuro in tutto questo. A casa mia si ride a crepapelle, ci si fa la pipì addosso per le risate. A casa mia si piange tanto, ci si odia e ci si disprezza a giorni alterni. A casa mia si dice MAIPEJABBU e DIONON PEGGIO. A casa mia convivono la fragilità e l’onnipotenza dell’ammalato, la testardaggine e l’ingenuità, lo spirito da crocerossina e l’indifferenza tagliente a volte necessaria.
Casa mia è come tutte le case del mondo. E forse no.
È piena di colori e di sfumature. A casa mia c’è l’amore che ogni giorno ci salva e la consapevolezza dei limiti. A casa mia, sino ad ora, ogni sofferenza è stata trasformata in opportunità, anche solo di conoscenza.
Insomma, se proprio vogliamo condividere una foto, che sia a colori, intensi, accecanti, di quelli che ti ricordano che, in fondo, ci sei e ci sarai per sempre.