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27 Dic

Anche l’amore chiede Salvezza

Ho sempre creduto di essere diversa.

Non peggiore e ovviamente neppure migliore degli altri, ma diversamente connessa alle cose rispetto alla maggior parte di coloro che incontravo sul mio tragitto chiamato vita.

Non ricordo quando abbia iniziato a “sentire gli occhi” delle persone, ma ricordo solo che ogni volta che accadeva, una efficientissima ditta di costruzioni dell’anima mia, portava a termine il progetto di edificazione di un mattone indistruttibile posto tra gola e ombelico. Era così imponente che persino deglutire e respirare risultavano due processi complicati.

Sentire gli occhi.

Non si tratta di stregoneria o modalità visionarie alla Mercoledì Addams, che sia chiaro.

E non credo neppure di essere la reincarnazione di qualche papessa o missionaria pia dei campi di cotone.

E’ che ho una notevole inclinazione, propensione, diabolica indole a sentire addosso il malessere degli altri e a provarlo talmente tanto forte da tentare in ogni modo possibile e a volte impossibile, di rimediare a questa ingiustizia.

Tutto questo sarebbe anche molto bello, se restasse nel recinto dei buoi delle persone conosciute e amiche.

Tuttavia, la straordinaria escalation del mattone tra gola e ombelico si avverte quando, ad esempio:

Prendo un mezzo pubblico e il mio sguardo da ape regina della salvezza si posa sul fiore di un signore anziano, con le buste della spesa, tutto solo e stanco. Che poi magari è una tra le persone più felici e spensierate al mondo, che sta per scendere alla prossima fermata per portare gli ingredienti di una goduriosa ricetta che gli preparerà la moglie con cui è sposato da tutta una vita. Ma io no, questa versione non me la bevo mai al primo giro del pub degli amici di Mari l’empatica.

Quel signore anziano scenderà alla prossima fermata e condurrà il suo sguardo perso altrove e non si ricorderà neppure più di me,  ma io starò tutto il giorno a pensarlo e a domandarmi se lo aspetta qualcuno, se si prenderanno cura di lui.

Scesa dal mezzo pubblico, salgo sulla giostra dei pensieri che giocano sulle montagne russe dell’anima mia.

Mi taglia in più parti il dolore. Il peso del mondo lo chiamano.

Immaginare che un uomo non possa godere della bellezza, quella che salva sempre. Quella di un sorriso, della condivisione, dell’ascolto e della parola. Mi lacera la solitudine perché in quel mare rischio io stessa di annegare, se le onde gigantesche dei pensieri tristi mi legano i piedi e non mi lasciano galleggiare.

Fuggo dal silenzio perché in esso si codificano le parole che non voglio scrivere né sentire. Compongo e scompongo i pensieri a mio piacimento, giocando a nascondino nel labirinto della mia testolina e lascio a terra, fuori dalla giostra, l’unica parola che supplica di essere ascoltata: salvezza.

Credevo bastasse la gentilezza. La gentilezza dei gesti, la gentilezza degli occhi, la gentilezza dei sorrisi.

Credevo che potesse servire a proteggerci tutti. A proteggere le persone che amiamo, a consegnare loro un biglietto per il tappeto magico, qualche metro sopra la terra, qualche metro sopra gli imprevisti della vita.

Nella mia eterna lotta contro la megalomania dell’empatia, ho sempre gestito il potere del sorriso e dell’allegria come il potente e segretissimo talismano che avrebbe salvato l’intera umanità dalla sofferenza dell’anima.

Ma poi ho iniziato a scontrarmi con la realtà, quella che tira pugni senza guantoni e non aspetta che tu li possa indossare.

La realtà se ne fotteva dei sorrisi, della gentilezza e dell’empatia. Se ne fregava della chimerica illusione di protezione dal dolore attraverso l’amore.

E parafrasando il film “Love”, la vita è un concetto molto strano. Come può una cosa così meravigliosa, venire accompagnata da tanto dolore?

Possibile che ci sia tanta superficie? Possibile che in questo labirinto in cui ci rifugiamo per evitare che ci regalino biglietti senza tempo per la giostra dei pensieri oscuri, nessuno s’accorga che abbiamo bisogno di essere salvati? Possibile che non riusciamo a trovare un senso? Ecco, l’ho detto.

Il senso di tutto.

Il senso di me. È la domanda che è stata partorita insieme a me , quella domenica in cui sono venuta al mondo.

Il significato della mia esistenza. Perché sono venuta al mondo? Che cosa posso fare io per rendere questa vita piena di bellezza?

A che cosa servo? Se non riesco a proteggere le persone che amo dalle malattie, dagli “imprevisti”, dalle ombre gigantesche che la vita gioca a concedere, a cosa servo?

Così, quando non ce l’ho fatta più a soffrire così tanto per quello che sentivo e vedevo, quando ho iniziato a sentirmi talmente nuda, inutile, inconcludente ed estremamente fragile, ho deciso che avrei dovuto costruirmi una corazza resistente ai colpi più assurdi. Ho deciso che avrei dovuto essere meno famelica di vita e ripararmi dalla disperazione degli altri ritirandomi in un cavallo di Troia contro il dolore che non puoi addomesticare .

Se fossi stata perfetta, se avessi avuto un estremo e infallibile controllo sui miei pensieri, se mi fossi armata corpo e anima contro le ingiustizie della vita che amavo come si ama un bambino che odora di borotalco, sicuramente avrei sofferto di meno, non avrei più sentito addosso gli occhi malinconici degli altri e soprattutto non avrei visto allo specchio i miei.

La malinconia è sempre stata una compagna assidua delle mie giornate.

Lei e la fobica ossessione delle visioni. L’immagine di chi amo morto per incidente, per strada, a causa di una caduta o per incidenti di varia natura.

Non è che siano ossessioni completamente irragionevoli. Un fondo di verità ce l’hanno sempre avuta.

Ad esempio, Mia madre stava per abbandonare la vita terrena a causa di un incidente stradale.

Avevo 14 anni. Da quel giorno e di quel periodo mi sono rimaste incollate la fobia di tutto ciò che cammina su ruota, la certezza che se non hai controllo su nulla allora puoi far finta di controllare tutto, la capacità di diventare adulta in una mattina e la prova che il cervello dimentica tutto ciò che gli fa male.

Come si prende in giro il cervello? Quale escamotage magico potevo sfruttare per non sentire più il dolore e non concedere alle mie ossessioni di farmi visita tutti i giorni per tutto il tempo? Come potevo eliminare dagli occhi i lividi, il sangue, la regressione, parole gigantesche come coma, perdita, memoria?

Sono diventata l’architetto dell’anima mia. Ho edificato un labirinto nel quale rifugiarmi, un mondo tutto mio nel quale fossi il vigile urbano della viabilità delle emozioni. Il mio motto era: se non puoi controllare l’esterno, controlla l’interno. Una interior designer della perfezione e degli eccessi.

Il mio labirinto fatto di arte, l’unica bellezza immortale che rivoluziona senza mai deluderti, si reggeva sulla disciplina, sull’infallibilità e sul rigore di un unico pensiero che poteva pulire tutti gli altri come uno spazzaneve dopo una valanga: cibo.

Cibocibocibocibocibocibocibocibo…

Provate a pronunciare questa parola e a ripeterla continuamente, costantemente e ossessivamente sempre.

La mia sfida più grande contro le innumerevoli paure del dolore umano era quella di riuscire a controllare la mia esistenza in relazione al controllo sul cibo.

La frenesia mi placava. Il ritmo dava pace alle ossa. Il moto perpetuo donava respiro e concedeva attimi di eterna pausa dall’ossessione.

Danzare era l’atto di libertà più coraggioso che mi potessi concedere. Mi liberava dai pensieri, cancellava il mio nome, imbianchino eccellente sul muro sporco della ricerca della perfezione. Non che non bramassi essere perfetta anche in quel contesto, ovvio che sì, ma era diverso. Nella voce del verbo danzare, lasciavo fuori corazze, cavalli di troia, meccanismi di protezione perversi che gestivano il mio quotidiano. Mi concedevo la bellezza di sbagliare, di cadere, di guardami allo specchio e non vedere solo un corpo da coprire con mille strati come l’anima che volevo celare, ma sentivo le mie emozioni. Danzare mi accordava il lusso di urlare, piangere, ridere, impazzire, mi proponeva la libertà di ricongiungermi a tutti quei momenti in cui io sia stata veramente felice, colorata, dipinta, piena di luce e magia.

Danzare era rinascere. Tutte le volte in cui entravo in sala. E questo, per fortuna, non è mai cambiato.

Senza difesa alcuna. Nuda. Senza vergogna. A chiedere salvezza. Per me, per tutti.

Non so quale sia stato l’apice del fondo.

Non so quando e con che azione abbia provato ad annullarmi talmente tanto da provare vergogna e compassione per me stessa.

Stavo diventando la mia fobia più grande. Per evitare il pensiero della morte, della malattia e del dolore, mi stavo trasformando io stessa in morte, malattia e dolore, facendo terra bruciata intorno a me.

La pratica del rifiuto.

La preghiera del no.

Più pretendevo di essere la più brava per aggraziarmi la vita contro gli eventi avversi e più rifiutavo la socialità in relazione al cibo e più pronunciavo la parola negazione e più la mia anima diventava oscura e nervosa e bugiarda. Ero diventata bravissima a dire menzogne.

Se chiudo gli occhi ricordo ancora quella sera in cui ho camminato per 2 ore, di sera, da sola, per tutta la città. Avevo detto l’ennesima bugia ai miei amici e alla mia famiglia. I primi sapevano che avrei mangiato a casa per poi uscire in tarda serata e gli altri avevano notizia che avrei cenato fuori casa.

Non era la prima volta e non sarebbe stata l’unica.

Ma adesso, se rivedo quella ragazza con due gambette magrissime vagare per la città di sera e al buio, a sfiancarsi, senza meta, pur di mentire a tutti e a se stessa, a perdere pezzi di condivisione con amici o famiglia, provo estrema compassione e un filo di rabbia.

Privazione e sacrificio.

Mi piaceva oltrepassare i limiti. Ogni volta alzavo l’asticella. Quella volta in cui mangiai solo una mela per 2 giorni di fila alla mensa dell’’università, dopo aver studiato come Leopardi, aver camminato a piedi come una maratoneta e aver danzato in sala, mi sono sentita un’aliena. Fortissima e invincibile. Mi piaceva quella sensazione. Mi faceva sentire imbattibile. Il mio corpo funzionava perfettamente, pensavo.

Era una macchina indistruttibile e la mia benzina più potente era la mia forza di volontà. La mia energia poteva illuminare un’intera città ma più mi sentivo energica e più la mia anima si oscurava e la lampadina diventava intermittente.

Sono arrivata a comprare cibo, cucinarlo per sporcare le pentole e poi buttarlo, contro ogni mio principio umano. Ma diventavo il mostro che odiavo più di tutti. Il demone che criticavo ero io stessa. Il nemico del mio nemico. Sempre e solo io.

Di notte non dormivo. Aspettavo che tutti prendessero sonno per ricominciare ad allenarmi, a spegnere il cervello e a mettere in moto il corpo. Al buio. Fuori e dentro.

Tutto questo controllo ha permesso agli eventi estremi ed esterni di stare lontano da me e dalla mia famiglia o da chi amassi? Assolutamente no.

Ho fatto amicizia con la parola tumore, cancro, metastasi, carcinoma di vario tipo e grado nonostante il super controllo sulla mia mente e corpo.

Ma la corazza, pensavo, stava funzionando.

Mi piaceva vedere quelle linee androgine, quella combattente di piuma, leggera e fortissima allo stesso tempo. Ma non era mai abbastanza.

Sono arrivata a pesarmi quasi ogni ora. O tutte le volte che potevo. Dopo la pipì, per evitare che il liquido alzasse l’ago.

Sono arrivata a mangiare biscotti stesa per terra durante un allenamento, così che il corpo riuscisse a bruciare all’istante e nulla arrivasse dentro lo stomaco.

Mentre gli anni che il mondo conta e segna come quelli di puro incanto e disincanto, di allegria e spensierata voglia di scoprirsi, quelli del liceo e dell’università, dove si dice che un ragazzo debba mangiarsi il mondo, io stavo divorando la mia anima, indossando mille e una maschera ogni volta per apparire sempre la stessa, sempre quel cartone animato che gli altri si aspettavano o che ho sempre pensato che gli altri volessero da me, mentre dentro mi spegnevo come un fiammifero.

Tutto chiede salvezza, scrive Daniele Mencarelli ed era quello che volevo io.

Salvezza.

Salvezza dai miei giudizi. Ai miei occhi, Non ero mai abbastanza. Tutto, a parte me, era sempre  più bello, più luminoso, più buono e più opportuno a questa esistenza.

Non ero abbastanza neppure come anoressica. Me ne resi conto in ambulatorio. A Roma.

Me ne stavo seduta, su quelle sedie scomodissime che ti ricordano che lì non ci dovresti neppure essere, ad attendere il mio turno per l’ennesimo consulto psicologico. Mi ci aveva mandata mia madre come conditio sine qua non per la mia permanenza fuori sede. Ovviamente per me era una perdita di tempo immane, senza capo né coda, senza senso. Stavo togliendo tempo al mio studio, stavo abbassando il mio livello energetico, tanto nulla sarebbe cambiato e io non avevo nulla che si potesse curare.

Mentre ero seduta ad aspettare di compilare il solito questionario sui disturbi alimentari, una figura davanti a me calpestava il pavimento, avanti e indietro, avanti e indietro come un animale in gabbia.

Non ricordo se fosse una ragazza o una donna perché il suo corpo non era più corpo di un essere umano ma aveva preso le sembianze di un ago che si muoveva incessantemente.

La guardai. E dentro di me sentì disprezzo verso me stessa. Vedi, Mari? Lei sì che sa fare bene le cose. Lei sì che ha un senso. Anche nella malattia.

Tu sei un impostore.

La sindrome dell’impostore la conobbi in quella occasione.

Ci provai, a farmi aiutare.

Ma non ero ancora pronta. E’ quello che mi racconto quando penso di aver perso del tempo importante sulla mia tabella di marcia, quando penso che sbaglio sempre i tempi e quando la parte di me che tende a puntare sempre il dito riemerge dal fondo.

Iniziai a non tollerare più le lamentele. L’anoressia, la ricerca della perfezione, il super controllo sul super io mi stava incattivendo. Detestavo incontrare persone che potessero avere problemi minimi che invece ingigantivano. Mi innervosivano le persone che si piangevano addosso senza rendersi conto che fossero estremamente fortunate. Stavo iniziando a pesare la grandezza dei problemi come pesavo le mie ossa.

Il dolore degli altri stava iniziando a rendermi insofferente e non più come empatica spugna che cercava di donare un sorriso e gentilezza ma come arida pianta senza emozioni.

Mentre scrivo sono stesa sul divano della mia casa, mentre mia figlia gioca a suonare e cantare e mio marito lavora.

Sono stesa sul divano perché il giorno prima della vigilia di Natale sono caduta, mettendo a vuoto il piede sinistro, mentre scendevo da un marciapiede.

Qualche anno fa questo evento “avverso” mi avrebbe devastata e mandata letteralmente ai matti.

Avrebbe provocato giganteschi tormenti interiori che avrei camuffato con matte risate e strampalate quanto estreme manifestazioni da giullare.

Ma non ora. Non dopo aver conosciuto la depressione e tutto ciò che comporta una diagnosi del genere.

Non dopo aver avuto il coraggio di chiedere aiuto.

Quando ho suonato alla porta della mia terapeuta, non sapevo più chi io fossi, perché fosse importante continuare a dare un senso alla mia vita e soprattutto le uniche parole che riuscissi a pronunciare denigravano, giudicavano, calunniavano la mia persona ed ero io stessa a sussurrarle, tra una lacrima e l’altra.

Non stavo bene, quella era l’unica certezza che in quel periodo avessi.

Quando ho suonato alla porta della mia terapeuta oltre a non sapermi, non sapevo neppure chi avessi trovato di fronte a me. Se fosse la persona adatta, con la quale e alla quale tagliare il mio cuore e donarglielo, tagliare la mia pelle per scriverci sopra gli appunti della mia storia, fatta di bellezza, tanta e sofferenza. Ma anche di tanto amore.

Ed è stato l’amore a condurmi da lei. Quello che però avrei dovuto incanalare anche verso me stessa.

Ti serve uno bravo! Tanto tempo fa si esprimeva questo concetto per offendere. Ci si sentiva offesi ed emarginati. Parlare di disturbi, qualunque essi fossero, di depressione e altri concetti legati alla mente, era un tabù.

Qualche anno fa, questa caduta avrebbe spianato la strada verso il labirinto, mi avrebbe fatto indossare la corazza, pronta ad esercitare il rigoroso controllo contro la fallibilità.

Fa male, certo. Ho provato rabbia e dolore, ovviamente. Il mio corpo è diventato il mio lavoro e dovrei curarlo come si cura un tempio sacro. La salute dei miei muscoli e di ogni parte del mio corpo è fondamentale. Ma ho dimostrato a me stessa che si po’ cadere e si può essere deboli, fragili, mostrarsi tali e veri davanti agli altri. Si può piangere davanti a tua figlia e a tuo marito e alla domanda “come stai?” rispondere con cruda sincerità: Male.

Si può essere quelli che si è e quello che si prova, senza giudizio, senza aspettarsi che gli altri giudichino la tua fallibilità. Si può cadere. Si può attendere. Si può aspettare. Si può avere pazienza che il corpo guarisca senza perdere la ragione. Senza lasciare che le ossessioni prendano il sopravvento. Senza oscurare tutta la luce che giorno dopo giorno, lentamente e con grande volontà abbiamo acceso.

L a verità è che se adesso il mio corpo è diventato il mio lavoro è grazie a quel campanello che sono riuscita a suonare, dicendo ad alta voce che non ero felice.

La verità è che la terapia è un viaggio che si compie in due in maniera attiva e ha degli effetti su tutti coloro che fanno parte della tua vita. Questo viaggio non è mai lineare e a volte ti verrebbe voglia di scendere alle prime fermate. Nello zaino da portare c’è una cosa che dovrebbe accompagnarti sempre ed è l’autenticità. In caso contrario, diventerebbe un viaggio falsato, un fake, la vera perdita di tempo che potresti concedere alla tua vita.

Nello zaino da portare in viaggio ci sono cose che imparerai a buttare, troppo pesanti per il tragitto sulla zattera dell’esistenza.

La verità è che chiedere perdono a se stessi ,prima di dirlo agli altri, è un processo complesso. E’ sempre stato più facile giudicarmi, amare gli altri e dare sostegno e supporto a tutti ,tranne che a me stessa.

Sulla zattera della salvezza ho imparato a pescare parole come dignità, rispetto, accoglienza, condivisione, piacere, cura, crisi, accettazione, consenso, ordinaria follia, normalità e straordinarietà. Amicizia e fratellanza e famiglia. La forza del no e la specialità del sì. La legittimità del dolore. Legittimare il dolore che ognuno di noi prova, senza che abbiano un peso sociale accettabile.

A fare la differenza è la consapevolezza di non essere mai davvero soli. Neppure quando lo si crede davvero, quando si sente addosso, nella pelle, nelle ossa e in ogni cellula visibile e invisibile quel buio talmente oscuro che rende ciechi. Non si è mai davvero soli.

La certezza che troveremo sempre qualcuno che possa guardarci negli occhi e sentirli, prenderci per mano dopo una caduta. Occorre fidarsi e affidarsi.

A fare la differenza è la condivisione e la gentilezza che non hai voluto perdere anche quando mi stavo spegnendo come un fiammifero al gelo. 

Mentre scrivo e ho il piede gonfio come il cotechino che potrei mangiare la notte di San Silvestro, ricevo messaggi di bellezza, quella che continua a salvare il mio personale mondo.

Messaggi di amore e amicizia che mi ricordano che la vita può essere costellata da imprevisti ed eventi avversi, ma guardare il cielo pieno di luce con chi ti vuole bene è la miglior medicina.

Ho pensato che me lo dovevo, lo dovevo a me stessa e agli anni pieni di labirinti. E lo dovevo a chi mi ama. Lo dovevo a chi non si è mai incattivito dopo aver attraversato l’inferno e continua a sognare e a tornare bambino ogni giorno. Lo dovevo a chi crede ancora che l’Amore tutto può ma bisogna avere pazienza e lucida follia.

Scrivere la verità e scrivere di verità, per tutte le persone che ancora fanno fatica a immaginarsi meritevoli di salvezza. Per tutti quelli che ancora non riescono a perdonarsi. Ma anche per chi pensa non si possa sorridere alle avversità, per tutti quelli che sanno ancora fare un salto al di là della pozzanghera e per chi nella pozzanghera ci salta dentro e ama sporcarsi e danzare nel fango.

La mia ossessione è ancora questa. Salvezza. Ma insieme si può vincere! Perché anche l’amore chiede salvezza.

E adesso io il mondo me lo voglio mangiare tutto quanto!

 

“Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio” Italo Calvino

11 Gen

Kintsugi- riparare le ferite con l’oro

“Il nonno se ne sta andando, forse dovreste venire a vederlo” .

Ho sentito il suono che emette l’aria mentre un foglio di carta si divide a metà con veemenza.

Il tumulto del cielo aveva sbagliato sicuramente momento.

Poi il rifiuto.

Negazione. Come quando tornata per le vacanze estive dall’università, non era previsto alcun giorno di pioggia sulla mia programmazione e sfollavo come una indemoniata al primo temporale estivo, monopolizzando amici e famiglia sotto gli ombrelloni aperti, mentre fuori il mare in tempesta implorava di abbandonare la spiaggia e lasciarlo solo a far l’amore con la pioggia, ma sorridendo agli altri dicevo: è solo un acquazzone estivo, andranno via tutti e resteremo soli a goderci il mare.

“Non lo voglio vedere.” Così ho risposto a quella chat bomba.

Per un paio di ore ho cercato la mia personale via d’uscita al dolore. Per attraversarlo e trasformarlo. Sono fuggita verso l’unico luogo fisico che mi consola e mi strazia allo stesso tempo, che mi affatica e mi solleva. Ho preso schiaffi dal vento mentre la schiuma delle onde mi ricordava dove sarei dovuta andare.

Volevo provare a restare in compagnia di quello che stava andando via e dovevo imparare a fare silenzio per poter ascoltare lo spartito del vento.

In un libro sulla perdita avevo letto pochi giorni prima: “ di chi non si sa nulla, non c’è niente da dire. Di chi non si sa nulla, nulla più importa. Basta tacere per eliminare, per questo serve ricordare, scrivere, parlare. Nominare quelle persone con altre persone.

La tristezza si accumula nella gola prima di scendere nel petto. Forse assedia i polmoni perché vorremmo respirare e parlare di più con chi con c’è più. Vogliamo il fiato della vita. Quel respiro che si mescola e diventa immortalità.

C’è sempre tempo, fino a quando non svanisce ed è lì che è sempre troppo tardi.

Il nonno mio odorava di Winston bianche e terra rossa. Aveva l’odore del barbiere che apriva bottega solo per lui alle 7 di mattina. Il nonno mio odorava di contrasti, genuini contrasti che la vita gli ha disegnato come un in un film di Fellini in bianco e nero,  sulla fronte piena di solchi. Aveva le mani di chi ha iniziato a lavorare a 7 anni dopo la morte del papà, declinando il verbo lavorare con missione e ossessione.

Il nonno mio odorava di “panari” stracolmi di mandorle e pinoli da schiacciare e le mani diventavano nere e più le unghie si tingevano di sporco e più l’anima si colorava di felicità inconsapevole.

Cemento e terra.

Costruire. Seminare. Raccogliere.

Mesciu Francu.

Per tutti era Mesciu Francu. Per me era Ciociona, un nomignolo che mi diede dal giorno in cui sono venuta alla luce, quando stava ancora imparando a fare il padre. Solo lui lo sapeva dire bene: ssssciosccciona strascicando la c che si mescolava alla s e in quell’impasto si amalgamava tutto l’amore che provava.

Il nonno odorava di gelsi neri e rossi, succosi e dipinti dall’albero. Di uova fresche da bere appena suonava all’alba al citofono e svegliava il vicinato. Le cose vanno fatte bene o niente. Aveva l’odore di boccino che mi dava il privilegio di tirare, mentre le scarpe si trasformavano in un quadro di Pollock e sulle labbra il sapore di terra ti faceva ricordare da dove veniamo.

Odorava di santi buttati giù dal calendario quando si arrabbiava e la rabbia lo rendeva amaro, ancora più piccolo di quanto fosse di statura, mentre corrugava la fronte spaziosa sulla quale potevi leggergli le paure e le bestemmie che seguivano alle prime.

Ciociona aveva l’odore delle giacche e delle camicie che indossava ogni mattina ed era così che si recava “alla campagna”, vestito da borghese ma con l’animo nobile di chi,  fino all’ultimo respiro,  ha sognato di poter costruire e pagare il dovuto ai suoi operai, anche quando la testa non lo accompagnava più nel suo corpo sempre più fragile. Perché da qualche mese avevamo iniziato a provare quella che in gergo si chiama “perdita ambigua”, un termine che si riferisce a un “lutto che sfugge, confonde e rimane irrisolto quando una persona cara non è più presente nel modo in cui l’abbiamo conosciuta”.

Nonno ciociona odorava di caffè offerti al bar, ovunque e a chiunque e non per apparente e prepotente dimostrazione del dio denaro ma per ingenua, genuina e profonda generosità che lo caratterizzava.

Era un uomo piccolo e profondamente buono. Quando ti salutava aveva il vizio di coglierti di sorpresa dietro alla nuca, con il suo strampalato modo di attorcigliare lembi di pelle con l’indice e il medio posti in diagonale. Ahia! E lui rideva sotto quel baffo color neve e catrame, puro e bellissimo, mentre gli occhi del mare di settembre si rimpicciolivano sotto le sopracciglia perennemente arruffate.

Il nonno mio odorava di musicassetta, di nastri che si arrotolavano per ascoltare Lucio Dalla nella Jeep.

Quella Jeep era un’astronave. Mi pareva che l’antenna esterna della radio fosse lunga fino al cielo per captare il segnale della luna. Si faceva condurre da quell’auto gigantesca che a vederla dall’esterno sembrava vuota, senza conducente, tanto era piccolo lui e tanto era immensa lei.

Con quella macchina ci ha portato ovunque noi gli chiedessimo di andare.

Tra sacchi di calcestruzzo e paglia, tra patate fuoriuscite dalle cassette e mangime per le galline, era il nostro maggiordomo di fiducia, pronto a chiedere sempre: te serve nienti?

Niente nonno. Anzi sì. Per favore, in edicola è uscito l’ultimo numero di Cioè e l’album figurine di Merlose Place. Meeeerlossssspleeeeiiis nonno.

Non so come, non so perché, ma alla fine ce la faceva sempre. Ad esaudire i desideri di tutti noi nipoti, anche le richieste in inglese di una bambina vissuta negli anni 90, tra Beverly Hills e Fame.

Aveva i super poteri, come tutte quelle persone che si lasciavano amare, follemente, proprio per quei contrasti esagerati che contraddistinguono quel tipo di umanità.

“Abbiate cura dei rami, soprattutto di quelli che sembrano forti. Sono quelli che cedono quando meno te l’aspetti”.

Potrei ricordarlo mentre tremava come un foglia schiaffeggiata dalla tramontana o mentre dolcemente gli cambiavamo il pannolone o gli pettinavamo quei 3 capelli sparpagliati che gli erano rimasti. Potrei ricordarlo mentre implorava di lasciarlo morire o si arrabbiava bruscamente perché nessuno era in grado di comprendere quel sibilo rimastogli nelle corde vocali.

Oppure potrei ricordarmi di lui mentre gli operatori del 118 lo hanno trasportato in un sacco nell’ascensore di un palazzo a 6 piani,  affinché potesse essere trasportato poi sulla barella. O mentre vomitava feci e chiudeva gli occhi.

Potrei ricordarmi di tutte quelle volte che ho rifiutato di andare a trovarlo perché la mia pelle sembrava sgretolarsi di fronte a tutto quel dolore.

Quando nasciamo nessuno ci consegna un manuale di istruzioni da tenere “in caso di emergenza”.

Oltre a nascere con la camicia, i neonati dovrebbero avere in dono un libro che dia consigli su come gestire l’amore e la perdita. L’immensità della vita e della morte.

E’ triste Venezia, nonno Mio.

Lo dicevi sempre quando lasciavi credere all’avversario che avessi poco o nulla sulle carte e invece alla fine, tutti i punti di scopa erano i tuoi. Il gioco era una cosa seria e ti arrabbiavi persino con Arya che non sapeva né leggere e né scrivere, se non giocava a modino.

Non c’è alcun manuale che possa istruirti su come rendere piuma il dolore.

Ma ho imparato a viverlo. Finalmente. Tutto quanto.

Pirandello scrisse che l’amore guardò il tempo e rise, perché sapeva di non averne bisogno.

Il nonno mio odorava d’amore e nell’amore è andato via. E la tristezza lascerà il posto alla consapevolezza di quanta fortuna abbia avuto io nella vita.

In quella Jeep abbiamo costruito i ricordi che voglio curare con il balsamo per ammorbidire i nodi della mancanza. Abbiamo cantato Attenti al lupo e Io “credo nell’amore che si muove dal cuore, che ti esce dalle mani e che cammina sotto i tuoi piedi. Il dolore ci cambierà, ma io ti cercherò da così lontano, perché l’amore, è l’amore che ci salverà”.

Ci vuole coraggio a ricevere amore. Ma ce ne vuole ancora di più ad amare. Ma è la sola cosa che ci resta quando la solitudine della fine terrena ci attorciglia. Sentirsi meno soli, fino all’ultimo respiro.

Siamo fatti di carne, mancanza e ossa e per il 90% di amore che possiamo dare prepotentemente.

Costruire. Seminare. Raccogliere. Ballare.

Ora alzo il volume e danzo.

Mi concede l’onore di questo ballo?

24 Ago

U scrusciu du mari

Palermo è d’oro. E’ araba. Gialla. Morbida. Eccentrica. Esagerata. E’accogliente, dal forte respiro cosmopolita. Un museo straordinario  ma con i netturbini in sciopero da anni.

Ballarò: Suq Al-Balhara (mercato degli specchi) era Il mercato dei commercianti arabi che vendevano spezie  e altri prodotti.

Non è la Sicilia, non è Palermo, non è l’Italia e non è neppure l’eco arabo che fa da cornice.

E’ un quadro, un gigantesco quadro in movimento. Se chiudi gli occhi, sono le voci a camminare per te.

Dolce frastuono accattivante.

Rapita in una dimensione che mescola e non trita, abbraccia e non spinge, sorride e non si lamenta.

Teatro. Vita. Realismo e surrealismo. Domina la tonalità -tramonto anche se il sole è appena nato e si suda, tanto, talmente tanto che credi di essere un ologramma, perché la vera te sarà sicuramente evaporata, tra i fumi e le braci ardenti.

Caleidoscopio.

Se fate parte della categoria “schizzinosi modus vivendi” statevi alle case vostre, ma se invece volete vivere l’esperienza mistica, lasciatevi trasportare dall’ “abbanniata”, la vendita dei prodotti che ciascun venditore propone come un vero e proprio show.  E’ il rosso il colore che abbraccia la mercanzia, il fuoco delle braci, il polpo seduto in attesa di essere gustato, la carne, la frutta sempre fresca, La stigghiola (interiora di vitello cotti alla brace, massaggiate a mani nude e crude dal premio Oscar per l’interpretazione pirandelliana, un puzzle a due gambe di un Mastrota degli anni 90 e Aldo Baglio), u pani ca’ meusa (pentoloni ricolmi di milza), le arancine, la rascatura (per noi salentini è un’altra cosa, ma diciamo che l’amore e la goduria ci sono lo stesso, che quando si frigge è buono tutto),lo sfincione.

Menzione d’onore summer 2021 va ad Arya, la principessa bionda senza nome che custodisce il lato oscuro della forza e lo esprime davanti ad un pentolone di milza.

Il padre ha rischiato di avere per tatuaggio i denti della selvaggia figlia in un momento di indimenticabile distrazione dal panino.

Orgoglio di papà.

Scioccata io.

La verità cruda delle cose la si annusa ad Aci Castello (Catania- Sicilia).

Senza tempo. Asprezza e durezza di un silenzio primitivo di una terra intesa come insieme di luoghi in cui ho avidamente cercato i personaggi dei miei libri preferiti, miscellanea di ricordi indelebili, grazie ai quali ho preso per mano Verga o Pirandello o Sciascia e passo dopo passo, dopo ogni granello di polvere rossa che il mio piede solleticava, ho ringraziato.

Così prendevano vita le parole in cui mi ero intrufolata da piccola, quando per molti la lettura era pesante, un macigno da sollevare prima delle interrogazioni.

Quei luoghi, quei tempi, quei proverbi, quei suoni così lontani finalmente hanno avuto una collocazione.

Ho guardato i faraglioni come avrebbe fatto Mena o la Longa, ho accolto il vento di scirocco tra i miei capelli e appollaiato lo sguardo sugli alberi di carrubo.

Il tempo è verbale e storico.

E’ “l’accorgersi che non si sta bene o che si potrebbe star meglio” come narra Giovanni Verga.

L’ho desiderata, stando lì, la macchina del tempo, quello in cui si osserva, travolti dalla fiumana e ci si interessa ai “vinti”, ai travolti, agli annegati.

E poi, al tramonto, quando il Castello Normanno esplode di bellezza, quella che salverà il mondo, riecheggiano i Malavoglia:

“il mare si udiva muggire attorno ai faraglioni che pareva ci fossero i buoi della fiera di S. Alfio e il giorno era apparso nero peggio dell’anima di Giuda”.

Ascoltatelo il mare lì sotto. E’ un brontolone che tutto sa e tutto conserva.

“il mare brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai faraglioni, perché il Mare non ha paese nemmeno lui ed è di tutti quelli che lo sanno ascoltare”.

E poi diventa amaranto.

E quando la nostalgia del rientro ti assale, puoi sempre ricordare che

 “ così tornano il bel sole e le dolci mattine d’inverno anche per gli occhi che hanno pianto e li hanno visti del colore della pece e ogni cosa si rinnova come la “provvidenza” che era bastata un po’ di pece e di colore e quattro pezzi di legno per farla tornare nuova come prima, e che non vede più nulla sono gli occhi che non piangono più e sono chiusi dalla morte”.

E ti senti fortunata.

La Sicilia è come il suo Vulcano.

Esplosione e miscela, speziata e aranciata.

Profumi, luci, colori di sopra e di sotto e tutto intorno: lui, il mare.

Infinito sopra come i promontori e sotto la terra di fuoco che sa di terracotta.

E’ oro.

E’ rubina.

E’ l’abbraccio di almeno 3 civiltà.

Complessità e caos.

Sublime poesia.

Armonia e asprezza. Cielo e mare che si scambiano perché qui la fantasia sovrasta ogni cosa e la realtà è solo quella che immagini mentre il sole non ti abbandona mai.

E’ una cerniera di eccessi, come la riserva naturale dello Zingaro. Sopra monti e sotto mare. In mezzo ci sei tu, il tuo sudore, le tue gambe marroni di polvere e terra, gli occhi che impazziscono e come flipper puntano il bersaglio della natura che regna, regina , madre, immensa e stancante. Non esistono mete. Esiste il viaggio. Le calette di pietre, sassi colorati e acqua verde smeraldo pullulano di turisti che giocano a tetris col proprio corpo pur di trovare un sasso su cui riposare. Le cose belle si sudano, letteralmente e metaforicamente. Ne vale il viaggio. Scarpe comode ma non belle. Al vostro rientro potrete dire addio alle fedeli compagne di avventure su e giù per la riserva, a meno che non amiate il rosso pompeiano con qualche striatura nera che sa di vissuto e di bello e dannato.

A proposito di rosso, di oro e rubini, di rosa e arancione morbido, Marsala è un colore, una città pantone.

Un braciere di rame adagiato nel cielo ciliegia narcotizza centinaia di viaggiatori arrivati alle Saline di Marsala per intrappolare negli occhi quello spettacolo unico nel suo genere.

Lo “stagnone” è una tappa obbligata per gli “insta-lovers” di tutto il mondo pronti estrarre la spada dell’hashtag sunset in love.

Fatele le foto, ma immortalate quel momento nella vostra anima di persone fortunate che hanno avuto l’onore di inchinarsi davanti al re Sole che si tuffa nelle vasche in cui si coltiva il sale marino.

Ma prima di annegare nel Marsala, altre Saline valgono il viaggio. Sono quelle di Trapani- Paceco.

Una guida wwf ,che pare il padre del bimbo esploratore che sogna infinite avventure in Up della Disney Pixar, vi condurrà alla scoperta del sale, la sua coltivazione, il metodo, la storia. Un paio di ore che avrete la possibilità di trascorrere, solo previa prenotazione causa coviddi, tra le saline di Trapani e Paceco, osservando financo i mitici esemplari di fenicotteri rosa in volo.

Se i  colori sono identità, le saracinesche della Kasbah di Mazara del Vallo sono cultura immortale. Muri e graffiti, lamiere di metallo e accoglienza. Nei vicoli stretti del quartiere che si affaccia sul mare nostrum, a pausa pranzo (una pausa lunghissima che può durare anche 5 ore)i negozi chiusi regalano vernissage a gratise, dove il blu cobalto, l’indaco e il verde smeraldo esplodono con forza. E’ il NOI la parola chiave. Fratellanza. Casa. Speranza. Unione. Qui fenici, cartaginesi, romani, saraceni e normanni hanno lasciato un segno e il mare lo sa. Quando il mondo tunisino a Mazara riposa, il green pass attivo vi permetterà di godere del magnetico sguardo del Satiro Danzante, in onore del Dio pagano Dioniso.

Esiste una mezzaluna di terra selvaggia che il vento accarezza e modella.

E’ Macari e il suo golfo dal fascino senza fine, indiscutibile prova della potenza della natura e del lavoro indefesso del vento e della musica che coccola la vista di scogliere a strapiombo e ti viene na scossa ndo cori cu tuttu ca fora si mori, na mori stranizza d’amuri l’amuri, come canta l’eterno Battiato.

Macari è il luogo in cui è possibile trascorrere un pezzo di vita in una tela di Lojacono.

In Sicilia si possono tenere gli occhi fissi al cielo e come scrive Verga, “mi pareva che le anime nostre si parlassero attraverso l’epidermide delle nostre mani e si abbracciassero nei nostri sguardi che si incontravano nelle stelle”.

Lì è possibile ancora meravigliarsi, commuoversi, innamorarsi.

La parola felicità sembra non essere così lontana.

p.s. la felicità si avvicina sempre di più ad ogni morso di una pasta con le sarde, finocchietto selvatico e muddica; caponata, cassatedde, cazzilli, sarde a beccafico, fichi e fichi d’india, cannoli, cassata, biscotti di pasta di mandorla eccetera eccetera eccetera.