27 Dic

Anche l’amore chiede Salvezza

Ho sempre creduto di essere diversa.

Non peggiore e ovviamente neppure migliore degli altri, ma diversamente connessa alle cose rispetto alla maggior parte di coloro che incontravo sul mio tragitto chiamato vita.

Non ricordo quando abbia iniziato a “sentire gli occhi” delle persone, ma ricordo solo che ogni volta che accadeva, una efficientissima ditta di costruzioni dell’anima mia, portava a termine il progetto di edificazione di un mattone indistruttibile posto tra gola e ombelico. Era così imponente che persino deglutire e respirare risultavano due processi complicati.

Sentire gli occhi.

Non si tratta di stregoneria o modalità visionarie alla Mercoledì Addams, che sia chiaro.

E non credo neppure di essere la reincarnazione di qualche papessa o missionaria pia dei campi di cotone.

E’ che ho una notevole inclinazione, propensione, diabolica indole a sentire addosso il malessere degli altri e a provarlo talmente tanto forte da tentare in ogni modo possibile e a volte impossibile, di rimediare a questa ingiustizia.

Tutto questo sarebbe anche molto bello, se restasse nel recinto dei buoi delle persone conosciute e amiche.

Tuttavia, la straordinaria escalation del mattone tra gola e ombelico si avverte quando, ad esempio:

Prendo un mezzo pubblico e il mio sguardo da ape regina della salvezza si posa sul fiore di un signore anziano, con le buste della spesa, tutto solo e stanco. Che poi magari è una tra le persone più felici e spensierate al mondo, che sta per scendere alla prossima fermata per portare gli ingredienti di una goduriosa ricetta che gli preparerà la moglie con cui è sposato da tutta una vita. Ma io no, questa versione non me la bevo mai al primo giro del pub degli amici di Mari l’empatica.

Quel signore anziano scenderà alla prossima fermata e condurrà il suo sguardo perso altrove e non si ricorderà neppure più di me,  ma io starò tutto il giorno a pensarlo e a domandarmi se lo aspetta qualcuno, se si prenderanno cura di lui.

Scesa dal mezzo pubblico, salgo sulla giostra dei pensieri che giocano sulle montagne russe dell’anima mia.

Mi taglia in più parti il dolore. Il peso del mondo lo chiamano.

Immaginare che un uomo non possa godere della bellezza, quella che salva sempre. Quella di un sorriso, della condivisione, dell’ascolto e della parola. Mi lacera la solitudine perché in quel mare rischio io stessa di annegare, se le onde gigantesche dei pensieri tristi mi legano i piedi e non mi lasciano galleggiare.

Fuggo dal silenzio perché in esso si codificano le parole che non voglio scrivere né sentire. Compongo e scompongo i pensieri a mio piacimento, giocando a nascondino nel labirinto della mia testolina e lascio a terra, fuori dalla giostra, l’unica parola che supplica di essere ascoltata: salvezza.

Credevo bastasse la gentilezza. La gentilezza dei gesti, la gentilezza degli occhi, la gentilezza dei sorrisi.

Credevo che potesse servire a proteggerci tutti. A proteggere le persone che amiamo, a consegnare loro un biglietto per il tappeto magico, qualche metro sopra la terra, qualche metro sopra gli imprevisti della vita.

Nella mia eterna lotta contro la megalomania dell’empatia, ho sempre gestito il potere del sorriso e dell’allegria come il potente e segretissimo talismano che avrebbe salvato l’intera umanità dalla sofferenza dell’anima.

Ma poi ho iniziato a scontrarmi con la realtà, quella che tira pugni senza guantoni e non aspetta che tu li possa indossare.

La realtà se ne fotteva dei sorrisi, della gentilezza e dell’empatia. Se ne fregava della chimerica illusione di protezione dal dolore attraverso l’amore.

E parafrasando il film “Love”, la vita è un concetto molto strano. Come può una cosa così meravigliosa, venire accompagnata da tanto dolore?

Possibile che ci sia tanta superficie? Possibile che in questo labirinto in cui ci rifugiamo per evitare che ci regalino biglietti senza tempo per la giostra dei pensieri oscuri, nessuno s’accorga che abbiamo bisogno di essere salvati? Possibile che non riusciamo a trovare un senso? Ecco, l’ho detto.

Il senso di tutto.

Il senso di me. È la domanda che è stata partorita insieme a me , quella domenica in cui sono venuta al mondo.

Il significato della mia esistenza. Perché sono venuta al mondo? Che cosa posso fare io per rendere questa vita piena di bellezza?

A che cosa servo? Se non riesco a proteggere le persone che amo dalle malattie, dagli “imprevisti”, dalle ombre gigantesche che la vita gioca a concedere, a cosa servo?

Così, quando non ce l’ho fatta più a soffrire così tanto per quello che sentivo e vedevo, quando ho iniziato a sentirmi talmente nuda, inutile, inconcludente ed estremamente fragile, ho deciso che avrei dovuto costruirmi una corazza resistente ai colpi più assurdi. Ho deciso che avrei dovuto essere meno famelica di vita e ripararmi dalla disperazione degli altri ritirandomi in un cavallo di Troia contro il dolore che non puoi addomesticare .

Se fossi stata perfetta, se avessi avuto un estremo e infallibile controllo sui miei pensieri, se mi fossi armata corpo e anima contro le ingiustizie della vita che amavo come si ama un bambino che odora di borotalco, sicuramente avrei sofferto di meno, non avrei più sentito addosso gli occhi malinconici degli altri e soprattutto non avrei visto allo specchio i miei.

La malinconia è sempre stata una compagna assidua delle mie giornate.

Lei e la fobica ossessione delle visioni. L’immagine di chi amo morto per incidente, per strada, a causa di una caduta o per incidenti di varia natura.

Non è che siano ossessioni completamente irragionevoli. Un fondo di verità ce l’hanno sempre avuta.

Ad esempio, Mia madre stava per abbandonare la vita terrena a causa di un incidente stradale.

Avevo 14 anni. Da quel giorno e di quel periodo mi sono rimaste incollate la fobia di tutto ciò che cammina su ruota, la certezza che se non hai controllo su nulla allora puoi far finta di controllare tutto, la capacità di diventare adulta in una mattina e la prova che il cervello dimentica tutto ciò che gli fa male.

Come si prende in giro il cervello? Quale escamotage magico potevo sfruttare per non sentire più il dolore e non concedere alle mie ossessioni di farmi visita tutti i giorni per tutto il tempo? Come potevo eliminare dagli occhi i lividi, il sangue, la regressione, parole gigantesche come coma, perdita, memoria?

Sono diventata l’architetto dell’anima mia. Ho edificato un labirinto nel quale rifugiarmi, un mondo tutto mio nel quale fossi il vigile urbano della viabilità delle emozioni. Il mio motto era: se non puoi controllare l’esterno, controlla l’interno. Una interior designer della perfezione e degli eccessi.

Il mio labirinto fatto di arte, l’unica bellezza immortale che rivoluziona senza mai deluderti, si reggeva sulla disciplina, sull’infallibilità e sul rigore di un unico pensiero che poteva pulire tutti gli altri come uno spazzaneve dopo una valanga: cibo.

Cibocibocibocibocibocibocibocibo…

Provate a pronunciare questa parola e a ripeterla continuamente, costantemente e ossessivamente sempre.

La mia sfida più grande contro le innumerevoli paure del dolore umano era quella di riuscire a controllare la mia esistenza in relazione al controllo sul cibo.

La frenesia mi placava. Il ritmo dava pace alle ossa. Il moto perpetuo donava respiro e concedeva attimi di eterna pausa dall’ossessione.

Danzare era l’atto di libertà più coraggioso che mi potessi concedere. Mi liberava dai pensieri, cancellava il mio nome, imbianchino eccellente sul muro sporco della ricerca della perfezione. Non che non bramassi essere perfetta anche in quel contesto, ovvio che sì, ma era diverso. Nella voce del verbo danzare, lasciavo fuori corazze, cavalli di troia, meccanismi di protezione perversi che gestivano il mio quotidiano. Mi concedevo la bellezza di sbagliare, di cadere, di guardami allo specchio e non vedere solo un corpo da coprire con mille strati come l’anima che volevo celare, ma sentivo le mie emozioni. Danzare mi accordava il lusso di urlare, piangere, ridere, impazzire, mi proponeva la libertà di ricongiungermi a tutti quei momenti in cui io sia stata veramente felice, colorata, dipinta, piena di luce e magia.

Danzare era rinascere. Tutte le volte in cui entravo in sala. E questo, per fortuna, non è mai cambiato.

Senza difesa alcuna. Nuda. Senza vergogna. A chiedere salvezza. Per me, per tutti.

Non so quale sia stato l’apice del fondo.

Non so quando e con che azione abbia provato ad annullarmi talmente tanto da provare vergogna e compassione per me stessa.

Stavo diventando la mia fobia più grande. Per evitare il pensiero della morte, della malattia e del dolore, mi stavo trasformando io stessa in morte, malattia e dolore, facendo terra bruciata intorno a me.

La pratica del rifiuto.

La preghiera del no.

Più pretendevo di essere la più brava per aggraziarmi la vita contro gli eventi avversi e più rifiutavo la socialità in relazione al cibo e più pronunciavo la parola negazione e più la mia anima diventava oscura e nervosa e bugiarda. Ero diventata bravissima a dire menzogne.

Se chiudo gli occhi ricordo ancora quella sera in cui ho camminato per 2 ore, di sera, da sola, per tutta la città. Avevo detto l’ennesima bugia ai miei amici e alla mia famiglia. I primi sapevano che avrei mangiato a casa per poi uscire in tarda serata e gli altri avevano notizia che avrei cenato fuori casa.

Non era la prima volta e non sarebbe stata l’unica.

Ma adesso, se rivedo quella ragazza con due gambette magrissime vagare per la città di sera e al buio, a sfiancarsi, senza meta, pur di mentire a tutti e a se stessa, a perdere pezzi di condivisione con amici o famiglia, provo estrema compassione e un filo di rabbia.

Privazione e sacrificio.

Mi piaceva oltrepassare i limiti. Ogni volta alzavo l’asticella. Quella volta in cui mangiai solo una mela per 2 giorni di fila alla mensa dell’’università, dopo aver studiato come Leopardi, aver camminato a piedi come una maratoneta e aver danzato in sala, mi sono sentita un’aliena. Fortissima e invincibile. Mi piaceva quella sensazione. Mi faceva sentire imbattibile. Il mio corpo funzionava perfettamente, pensavo.

Era una macchina indistruttibile e la mia benzina più potente era la mia forza di volontà. La mia energia poteva illuminare un’intera città ma più mi sentivo energica e più la mia anima si oscurava e la lampadina diventava intermittente.

Sono arrivata a comprare cibo, cucinarlo per sporcare le pentole e poi buttarlo, contro ogni mio principio umano. Ma diventavo il mostro che odiavo più di tutti. Il demone che criticavo ero io stessa. Il nemico del mio nemico. Sempre e solo io.

Di notte non dormivo. Aspettavo che tutti prendessero sonno per ricominciare ad allenarmi, a spegnere il cervello e a mettere in moto il corpo. Al buio. Fuori e dentro.

Tutto questo controllo ha permesso agli eventi estremi ed esterni di stare lontano da me e dalla mia famiglia o da chi amassi? Assolutamente no.

Ho fatto amicizia con la parola tumore, cancro, metastasi, carcinoma di vario tipo e grado nonostante il super controllo sulla mia mente e corpo.

Ma la corazza, pensavo, stava funzionando.

Mi piaceva vedere quelle linee androgine, quella combattente di piuma, leggera e fortissima allo stesso tempo. Ma non era mai abbastanza.

Sono arrivata a pesarmi quasi ogni ora. O tutte le volte che potevo. Dopo la pipì, per evitare che il liquido alzasse l’ago.

Sono arrivata a mangiare biscotti stesa per terra durante un allenamento, così che il corpo riuscisse a bruciare all’istante e nulla arrivasse dentro lo stomaco.

Mentre gli anni che il mondo conta e segna come quelli di puro incanto e disincanto, di allegria e spensierata voglia di scoprirsi, quelli del liceo e dell’università, dove si dice che un ragazzo debba mangiarsi il mondo, io stavo divorando la mia anima, indossando mille e una maschera ogni volta per apparire sempre la stessa, sempre quel cartone animato che gli altri si aspettavano o che ho sempre pensato che gli altri volessero da me, mentre dentro mi spegnevo come un fiammifero.

Tutto chiede salvezza, scrive Daniele Mencarelli ed era quello che volevo io.

Salvezza.

Salvezza dai miei giudizi. Ai miei occhi, Non ero mai abbastanza. Tutto, a parte me, era sempre  più bello, più luminoso, più buono e più opportuno a questa esistenza.

Non ero abbastanza neppure come anoressica. Me ne resi conto in ambulatorio. A Roma.

Me ne stavo seduta, su quelle sedie scomodissime che ti ricordano che lì non ci dovresti neppure essere, ad attendere il mio turno per l’ennesimo consulto psicologico. Mi ci aveva mandata mia madre come conditio sine qua non per la mia permanenza fuori sede. Ovviamente per me era una perdita di tempo immane, senza capo né coda, senza senso. Stavo togliendo tempo al mio studio, stavo abbassando il mio livello energetico, tanto nulla sarebbe cambiato e io non avevo nulla che si potesse curare.

Mentre ero seduta ad aspettare di compilare il solito questionario sui disturbi alimentari, una figura davanti a me calpestava il pavimento, avanti e indietro, avanti e indietro come un animale in gabbia.

Non ricordo se fosse una ragazza o una donna perché il suo corpo non era più corpo di un essere umano ma aveva preso le sembianze di un ago che si muoveva incessantemente.

La guardai. E dentro di me sentì disprezzo verso me stessa. Vedi, Mari? Lei sì che sa fare bene le cose. Lei sì che ha un senso. Anche nella malattia.

Tu sei un impostore.

La sindrome dell’impostore la conobbi in quella occasione.

Ci provai, a farmi aiutare.

Ma non ero ancora pronta. E’ quello che mi racconto quando penso di aver perso del tempo importante sulla mia tabella di marcia, quando penso che sbaglio sempre i tempi e quando la parte di me che tende a puntare sempre il dito riemerge dal fondo.

Iniziai a non tollerare più le lamentele. L’anoressia, la ricerca della perfezione, il super controllo sul super io mi stava incattivendo. Detestavo incontrare persone che potessero avere problemi minimi che invece ingigantivano. Mi innervosivano le persone che si piangevano addosso senza rendersi conto che fossero estremamente fortunate. Stavo iniziando a pesare la grandezza dei problemi come pesavo le mie ossa.

Il dolore degli altri stava iniziando a rendermi insofferente e non più come empatica spugna che cercava di donare un sorriso e gentilezza ma come arida pianta senza emozioni.

Mentre scrivo sono stesa sul divano della mia casa, mentre mia figlia gioca a suonare e cantare e mio marito lavora.

Sono stesa sul divano perché il giorno prima della vigilia di Natale sono caduta, mettendo a vuoto il piede sinistro, mentre scendevo da un marciapiede.

Qualche anno fa questo evento “avverso” mi avrebbe devastata e mandata letteralmente ai matti.

Avrebbe provocato giganteschi tormenti interiori che avrei camuffato con matte risate e strampalate quanto estreme manifestazioni da giullare.

Ma non ora. Non dopo aver conosciuto la depressione e tutto ciò che comporta una diagnosi del genere.

Non dopo aver avuto il coraggio di chiedere aiuto.

Quando ho suonato alla porta della mia terapeuta, non sapevo più chi io fossi, perché fosse importante continuare a dare un senso alla mia vita e soprattutto le uniche parole che riuscissi a pronunciare denigravano, giudicavano, calunniavano la mia persona ed ero io stessa a sussurrarle, tra una lacrima e l’altra.

Non stavo bene, quella era l’unica certezza che in quel periodo avessi.

Quando ho suonato alla porta della mia terapeuta oltre a non sapermi, non sapevo neppure chi avessi trovato di fronte a me. Se fosse la persona adatta, con la quale e alla quale tagliare il mio cuore e donarglielo, tagliare la mia pelle per scriverci sopra gli appunti della mia storia, fatta di bellezza, tanta e sofferenza. Ma anche di tanto amore.

Ed è stato l’amore a condurmi da lei. Quello che però avrei dovuto incanalare anche verso me stessa.

Ti serve uno bravo! Tanto tempo fa si esprimeva questo concetto per offendere. Ci si sentiva offesi ed emarginati. Parlare di disturbi, qualunque essi fossero, di depressione e altri concetti legati alla mente, era un tabù.

Qualche anno fa, questa caduta avrebbe spianato la strada verso il labirinto, mi avrebbe fatto indossare la corazza, pronta ad esercitare il rigoroso controllo contro la fallibilità.

Fa male, certo. Ho provato rabbia e dolore, ovviamente. Il mio corpo è diventato il mio lavoro e dovrei curarlo come si cura un tempio sacro. La salute dei miei muscoli e di ogni parte del mio corpo è fondamentale. Ma ho dimostrato a me stessa che si po’ cadere e si può essere deboli, fragili, mostrarsi tali e veri davanti agli altri. Si può piangere davanti a tua figlia e a tuo marito e alla domanda “come stai?” rispondere con cruda sincerità: Male.

Si può essere quelli che si è e quello che si prova, senza giudizio, senza aspettarsi che gli altri giudichino la tua fallibilità. Si può cadere. Si può attendere. Si può aspettare. Si può avere pazienza che il corpo guarisca senza perdere la ragione. Senza lasciare che le ossessioni prendano il sopravvento. Senza oscurare tutta la luce che giorno dopo giorno, lentamente e con grande volontà abbiamo acceso.

L a verità è che se adesso il mio corpo è diventato il mio lavoro è grazie a quel campanello che sono riuscita a suonare, dicendo ad alta voce che non ero felice.

La verità è che la terapia è un viaggio che si compie in due in maniera attiva e ha degli effetti su tutti coloro che fanno parte della tua vita. Questo viaggio non è mai lineare e a volte ti verrebbe voglia di scendere alle prime fermate. Nello zaino da portare c’è una cosa che dovrebbe accompagnarti sempre ed è l’autenticità. In caso contrario, diventerebbe un viaggio falsato, un fake, la vera perdita di tempo che potresti concedere alla tua vita.

Nello zaino da portare in viaggio ci sono cose che imparerai a buttare, troppo pesanti per il tragitto sulla zattera dell’esistenza.

La verità è che chiedere perdono a se stessi ,prima di dirlo agli altri, è un processo complesso. E’ sempre stato più facile giudicarmi, amare gli altri e dare sostegno e supporto a tutti ,tranne che a me stessa.

Sulla zattera della salvezza ho imparato a pescare parole come dignità, rispetto, accoglienza, condivisione, piacere, cura, crisi, accettazione, consenso, ordinaria follia, normalità e straordinarietà. Amicizia e fratellanza e famiglia. La forza del no e la specialità del sì. La legittimità del dolore. Legittimare il dolore che ognuno di noi prova, senza che abbiano un peso sociale accettabile.

A fare la differenza è la consapevolezza di non essere mai davvero soli. Neppure quando lo si crede davvero, quando si sente addosso, nella pelle, nelle ossa e in ogni cellula visibile e invisibile quel buio talmente oscuro che rende ciechi. Non si è mai davvero soli.

La certezza che troveremo sempre qualcuno che possa guardarci negli occhi e sentirli, prenderci per mano dopo una caduta. Occorre fidarsi e affidarsi.

A fare la differenza è la condivisione e la gentilezza che non hai voluto perdere anche quando mi stavo spegnendo come un fiammifero al gelo. 

Mentre scrivo e ho il piede gonfio come il cotechino che potrei mangiare la notte di San Silvestro, ricevo messaggi di bellezza, quella che continua a salvare il mio personale mondo.

Messaggi di amore e amicizia che mi ricordano che la vita può essere costellata da imprevisti ed eventi avversi, ma guardare il cielo pieno di luce con chi ti vuole bene è la miglior medicina.

Ho pensato che me lo dovevo, lo dovevo a me stessa e agli anni pieni di labirinti. E lo dovevo a chi mi ama. Lo dovevo a chi non si è mai incattivito dopo aver attraversato l’inferno e continua a sognare e a tornare bambino ogni giorno. Lo dovevo a chi crede ancora che l’Amore tutto può ma bisogna avere pazienza e lucida follia.

Scrivere la verità e scrivere di verità, per tutte le persone che ancora fanno fatica a immaginarsi meritevoli di salvezza. Per tutti quelli che ancora non riescono a perdonarsi. Ma anche per chi pensa non si possa sorridere alle avversità, per tutti quelli che sanno ancora fare un salto al di là della pozzanghera e per chi nella pozzanghera ci salta dentro e ama sporcarsi e danzare nel fango.

La mia ossessione è ancora questa. Salvezza. Ma insieme si può vincere! Perché anche l’amore chiede salvezza.

E adesso io il mondo me lo voglio mangiare tutto quanto!

 

“Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio” Italo Calvino

11 Gen

Kintsugi- riparare le ferite con l’oro

“Il nonno se ne sta andando, forse dovreste venire a vederlo” .

Ho sentito il suono che emette l’aria mentre un foglio di carta si divide a metà con veemenza.

Il tumulto del cielo aveva sbagliato sicuramente momento.

Poi il rifiuto.

Negazione. Come quando tornata per le vacanze estive dall’università, non era previsto alcun giorno di pioggia sulla mia programmazione e sfollavo come una indemoniata al primo temporale estivo, monopolizzando amici e famiglia sotto gli ombrelloni aperti, mentre fuori il mare in tempesta implorava di abbandonare la spiaggia e lasciarlo solo a far l’amore con la pioggia, ma sorridendo agli altri dicevo: è solo un acquazzone estivo, andranno via tutti e resteremo soli a goderci il mare.

“Non lo voglio vedere.” Così ho risposto a quella chat bomba.

Per un paio di ore ho cercato la mia personale via d’uscita al dolore. Per attraversarlo e trasformarlo. Sono fuggita verso l’unico luogo fisico che mi consola e mi strazia allo stesso tempo, che mi affatica e mi solleva. Ho preso schiaffi dal vento mentre la schiuma delle onde mi ricordava dove sarei dovuta andare.

Volevo provare a restare in compagnia di quello che stava andando via e dovevo imparare a fare silenzio per poter ascoltare lo spartito del vento.

In un libro sulla perdita avevo letto pochi giorni prima: “ di chi non si sa nulla, non c’è niente da dire. Di chi non si sa nulla, nulla più importa. Basta tacere per eliminare, per questo serve ricordare, scrivere, parlare. Nominare quelle persone con altre persone.

La tristezza si accumula nella gola prima di scendere nel petto. Forse assedia i polmoni perché vorremmo respirare e parlare di più con chi con c’è più. Vogliamo il fiato della vita. Quel respiro che si mescola e diventa immortalità.

C’è sempre tempo, fino a quando non svanisce ed è lì che è sempre troppo tardi.

Il nonno mio odorava di Winston bianche e terra rossa. Aveva l’odore del barbiere che apriva bottega solo per lui alle 7 di mattina. Il nonno mio odorava di contrasti, genuini contrasti che la vita gli ha disegnato come un in un film di Fellini in bianco e nero,  sulla fronte piena di solchi. Aveva le mani di chi ha iniziato a lavorare a 7 anni dopo la morte del papà, declinando il verbo lavorare con missione e ossessione.

Il nonno mio odorava di “panari” stracolmi di mandorle e pinoli da schiacciare e le mani diventavano nere e più le unghie si tingevano di sporco e più l’anima si colorava di felicità inconsapevole.

Cemento e terra.

Costruire. Seminare. Raccogliere.

Mesciu Francu.

Per tutti era Mesciu Francu. Per me era Ciociona, un nomignolo che mi diede dal giorno in cui sono venuta alla luce, quando stava ancora imparando a fare il padre. Solo lui lo sapeva dire bene: ssssciosccciona strascicando la c che si mescolava alla s e in quell’impasto si amalgamava tutto l’amore che provava.

Il nonno odorava di gelsi neri e rossi, succosi e dipinti dall’albero. Di uova fresche da bere appena suonava all’alba al citofono e svegliava il vicinato. Le cose vanno fatte bene o niente. Aveva l’odore di boccino che mi dava il privilegio di tirare, mentre le scarpe si trasformavano in un quadro di Pollock e sulle labbra il sapore di terra ti faceva ricordare da dove veniamo.

Odorava di santi buttati giù dal calendario quando si arrabbiava e la rabbia lo rendeva amaro, ancora più piccolo di quanto fosse di statura, mentre corrugava la fronte spaziosa sulla quale potevi leggergli le paure e le bestemmie che seguivano alle prime.

Ciociona aveva l’odore delle giacche e delle camicie che indossava ogni mattina ed era così che si recava “alla campagna”, vestito da borghese ma con l’animo nobile di chi,  fino all’ultimo respiro,  ha sognato di poter costruire e pagare il dovuto ai suoi operai, anche quando la testa non lo accompagnava più nel suo corpo sempre più fragile. Perché da qualche mese avevamo iniziato a provare quella che in gergo si chiama “perdita ambigua”, un termine che si riferisce a un “lutto che sfugge, confonde e rimane irrisolto quando una persona cara non è più presente nel modo in cui l’abbiamo conosciuta”.

Nonno ciociona odorava di caffè offerti al bar, ovunque e a chiunque e non per apparente e prepotente dimostrazione del dio denaro ma per ingenua, genuina e profonda generosità che lo caratterizzava.

Era un uomo piccolo e profondamente buono. Quando ti salutava aveva il vizio di coglierti di sorpresa dietro alla nuca, con il suo strampalato modo di attorcigliare lembi di pelle con l’indice e il medio posti in diagonale. Ahia! E lui rideva sotto quel baffo color neve e catrame, puro e bellissimo, mentre gli occhi del mare di settembre si rimpicciolivano sotto le sopracciglia perennemente arruffate.

Il nonno mio odorava di musicassetta, di nastri che si arrotolavano per ascoltare Lucio Dalla nella Jeep.

Quella Jeep era un’astronave. Mi pareva che l’antenna esterna della radio fosse lunga fino al cielo per captare il segnale della luna. Si faceva condurre da quell’auto gigantesca che a vederla dall’esterno sembrava vuota, senza conducente, tanto era piccolo lui e tanto era immensa lei.

Con quella macchina ci ha portato ovunque noi gli chiedessimo di andare.

Tra sacchi di calcestruzzo e paglia, tra patate fuoriuscite dalle cassette e mangime per le galline, era il nostro maggiordomo di fiducia, pronto a chiedere sempre: te serve nienti?

Niente nonno. Anzi sì. Per favore, in edicola è uscito l’ultimo numero di Cioè e l’album figurine di Merlose Place. Meeeerlossssspleeeeiiis nonno.

Non so come, non so perché, ma alla fine ce la faceva sempre. Ad esaudire i desideri di tutti noi nipoti, anche le richieste in inglese di una bambina vissuta negli anni 90, tra Beverly Hills e Fame.

Aveva i super poteri, come tutte quelle persone che si lasciavano amare, follemente, proprio per quei contrasti esagerati che contraddistinguono quel tipo di umanità.

“Abbiate cura dei rami, soprattutto di quelli che sembrano forti. Sono quelli che cedono quando meno te l’aspetti”.

Potrei ricordarlo mentre tremava come un foglia schiaffeggiata dalla tramontana o mentre dolcemente gli cambiavamo il pannolone o gli pettinavamo quei 3 capelli sparpagliati che gli erano rimasti. Potrei ricordarlo mentre implorava di lasciarlo morire o si arrabbiava bruscamente perché nessuno era in grado di comprendere quel sibilo rimastogli nelle corde vocali.

Oppure potrei ricordarmi di lui mentre gli operatori del 118 lo hanno trasportato in un sacco nell’ascensore di un palazzo a 6 piani,  affinché potesse essere trasportato poi sulla barella. O mentre vomitava feci e chiudeva gli occhi.

Potrei ricordarmi di tutte quelle volte che ho rifiutato di andare a trovarlo perché la mia pelle sembrava sgretolarsi di fronte a tutto quel dolore.

Quando nasciamo nessuno ci consegna un manuale di istruzioni da tenere “in caso di emergenza”.

Oltre a nascere con la camicia, i neonati dovrebbero avere in dono un libro che dia consigli su come gestire l’amore e la perdita. L’immensità della vita e della morte.

E’ triste Venezia, nonno Mio.

Lo dicevi sempre quando lasciavi credere all’avversario che avessi poco o nulla sulle carte e invece alla fine, tutti i punti di scopa erano i tuoi. Il gioco era una cosa seria e ti arrabbiavi persino con Arya che non sapeva né leggere e né scrivere, se non giocava a modino.

Non c’è alcun manuale che possa istruirti su come rendere piuma il dolore.

Ma ho imparato a viverlo. Finalmente. Tutto quanto.

Pirandello scrisse che l’amore guardò il tempo e rise, perché sapeva di non averne bisogno.

Il nonno mio odorava d’amore e nell’amore è andato via. E la tristezza lascerà il posto alla consapevolezza di quanta fortuna abbia avuto io nella vita.

In quella Jeep abbiamo costruito i ricordi che voglio curare con il balsamo per ammorbidire i nodi della mancanza. Abbiamo cantato Attenti al lupo e Io “credo nell’amore che si muove dal cuore, che ti esce dalle mani e che cammina sotto i tuoi piedi. Il dolore ci cambierà, ma io ti cercherò da così lontano, perché l’amore, è l’amore che ci salverà”.

Ci vuole coraggio a ricevere amore. Ma ce ne vuole ancora di più ad amare. Ma è la sola cosa che ci resta quando la solitudine della fine terrena ci attorciglia. Sentirsi meno soli, fino all’ultimo respiro.

Siamo fatti di carne, mancanza e ossa e per il 90% di amore che possiamo dare prepotentemente.

Costruire. Seminare. Raccogliere. Ballare.

Ora alzo il volume e danzo.

Mi concede l’onore di questo ballo?

24 Ago

U scrusciu du mari

Palermo è d’oro. E’ araba. Gialla. Morbida. Eccentrica. Esagerata. E’accogliente, dal forte respiro cosmopolita. Un museo straordinario  ma con i netturbini in sciopero da anni.

Ballarò: Suq Al-Balhara (mercato degli specchi) era Il mercato dei commercianti arabi che vendevano spezie  e altri prodotti.

Non è la Sicilia, non è Palermo, non è l’Italia e non è neppure l’eco arabo che fa da cornice.

E’ un quadro, un gigantesco quadro in movimento. Se chiudi gli occhi, sono le voci a camminare per te.

Dolce frastuono accattivante.

Rapita in una dimensione che mescola e non trita, abbraccia e non spinge, sorride e non si lamenta.

Teatro. Vita. Realismo e surrealismo. Domina la tonalità -tramonto anche se il sole è appena nato e si suda, tanto, talmente tanto che credi di essere un ologramma, perché la vera te sarà sicuramente evaporata, tra i fumi e le braci ardenti.

Caleidoscopio.

Se fate parte della categoria “schizzinosi modus vivendi” statevi alle case vostre, ma se invece volete vivere l’esperienza mistica, lasciatevi trasportare dall’ “abbanniata”, la vendita dei prodotti che ciascun venditore propone come un vero e proprio show.  E’ il rosso il colore che abbraccia la mercanzia, il fuoco delle braci, il polpo seduto in attesa di essere gustato, la carne, la frutta sempre fresca, La stigghiola (interiora di vitello cotti alla brace, massaggiate a mani nude e crude dal premio Oscar per l’interpretazione pirandelliana, un puzzle a due gambe di un Mastrota degli anni 90 e Aldo Baglio), u pani ca’ meusa (pentoloni ricolmi di milza), le arancine, la rascatura (per noi salentini è un’altra cosa, ma diciamo che l’amore e la goduria ci sono lo stesso, che quando si frigge è buono tutto),lo sfincione.

Menzione d’onore summer 2021 va ad Arya, la principessa bionda senza nome che custodisce il lato oscuro della forza e lo esprime davanti ad un pentolone di milza.

Il padre ha rischiato di avere per tatuaggio i denti della selvaggia figlia in un momento di indimenticabile distrazione dal panino.

Orgoglio di papà.

Scioccata io.

La verità cruda delle cose la si annusa ad Aci Castello (Catania- Sicilia).

Senza tempo. Asprezza e durezza di un silenzio primitivo di una terra intesa come insieme di luoghi in cui ho avidamente cercato i personaggi dei miei libri preferiti, miscellanea di ricordi indelebili, grazie ai quali ho preso per mano Verga o Pirandello o Sciascia e passo dopo passo, dopo ogni granello di polvere rossa che il mio piede solleticava, ho ringraziato.

Così prendevano vita le parole in cui mi ero intrufolata da piccola, quando per molti la lettura era pesante, un macigno da sollevare prima delle interrogazioni.

Quei luoghi, quei tempi, quei proverbi, quei suoni così lontani finalmente hanno avuto una collocazione.

Ho guardato i faraglioni come avrebbe fatto Mena o la Longa, ho accolto il vento di scirocco tra i miei capelli e appollaiato lo sguardo sugli alberi di carrubo.

Il tempo è verbale e storico.

E’ “l’accorgersi che non si sta bene o che si potrebbe star meglio” come narra Giovanni Verga.

L’ho desiderata, stando lì, la macchina del tempo, quello in cui si osserva, travolti dalla fiumana e ci si interessa ai “vinti”, ai travolti, agli annegati.

E poi, al tramonto, quando il Castello Normanno esplode di bellezza, quella che salverà il mondo, riecheggiano i Malavoglia:

“il mare si udiva muggire attorno ai faraglioni che pareva ci fossero i buoi della fiera di S. Alfio e il giorno era apparso nero peggio dell’anima di Giuda”.

Ascoltatelo il mare lì sotto. E’ un brontolone che tutto sa e tutto conserva.

“il mare brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai faraglioni, perché il Mare non ha paese nemmeno lui ed è di tutti quelli che lo sanno ascoltare”.

E poi diventa amaranto.

E quando la nostalgia del rientro ti assale, puoi sempre ricordare che

 “ così tornano il bel sole e le dolci mattine d’inverno anche per gli occhi che hanno pianto e li hanno visti del colore della pece e ogni cosa si rinnova come la “provvidenza” che era bastata un po’ di pece e di colore e quattro pezzi di legno per farla tornare nuova come prima, e che non vede più nulla sono gli occhi che non piangono più e sono chiusi dalla morte”.

E ti senti fortunata.

La Sicilia è come il suo Vulcano.

Esplosione e miscela, speziata e aranciata.

Profumi, luci, colori di sopra e di sotto e tutto intorno: lui, il mare.

Infinito sopra come i promontori e sotto la terra di fuoco che sa di terracotta.

E’ oro.

E’ rubina.

E’ l’abbraccio di almeno 3 civiltà.

Complessità e caos.

Sublime poesia.

Armonia e asprezza. Cielo e mare che si scambiano perché qui la fantasia sovrasta ogni cosa e la realtà è solo quella che immagini mentre il sole non ti abbandona mai.

E’ una cerniera di eccessi, come la riserva naturale dello Zingaro. Sopra monti e sotto mare. In mezzo ci sei tu, il tuo sudore, le tue gambe marroni di polvere e terra, gli occhi che impazziscono e come flipper puntano il bersaglio della natura che regna, regina , madre, immensa e stancante. Non esistono mete. Esiste il viaggio. Le calette di pietre, sassi colorati e acqua verde smeraldo pullulano di turisti che giocano a tetris col proprio corpo pur di trovare un sasso su cui riposare. Le cose belle si sudano, letteralmente e metaforicamente. Ne vale il viaggio. Scarpe comode ma non belle. Al vostro rientro potrete dire addio alle fedeli compagne di avventure su e giù per la riserva, a meno che non amiate il rosso pompeiano con qualche striatura nera che sa di vissuto e di bello e dannato.

A proposito di rosso, di oro e rubini, di rosa e arancione morbido, Marsala è un colore, una città pantone.

Un braciere di rame adagiato nel cielo ciliegia narcotizza centinaia di viaggiatori arrivati alle Saline di Marsala per intrappolare negli occhi quello spettacolo unico nel suo genere.

Lo “stagnone” è una tappa obbligata per gli “insta-lovers” di tutto il mondo pronti estrarre la spada dell’hashtag sunset in love.

Fatele le foto, ma immortalate quel momento nella vostra anima di persone fortunate che hanno avuto l’onore di inchinarsi davanti al re Sole che si tuffa nelle vasche in cui si coltiva il sale marino.

Ma prima di annegare nel Marsala, altre Saline valgono il viaggio. Sono quelle di Trapani- Paceco.

Una guida wwf ,che pare il padre del bimbo esploratore che sogna infinite avventure in Up della Disney Pixar, vi condurrà alla scoperta del sale, la sua coltivazione, il metodo, la storia. Un paio di ore che avrete la possibilità di trascorrere, solo previa prenotazione causa coviddi, tra le saline di Trapani e Paceco, osservando financo i mitici esemplari di fenicotteri rosa in volo.

Se i  colori sono identità, le saracinesche della Kasbah di Mazara del Vallo sono cultura immortale. Muri e graffiti, lamiere di metallo e accoglienza. Nei vicoli stretti del quartiere che si affaccia sul mare nostrum, a pausa pranzo (una pausa lunghissima che può durare anche 5 ore)i negozi chiusi regalano vernissage a gratise, dove il blu cobalto, l’indaco e il verde smeraldo esplodono con forza. E’ il NOI la parola chiave. Fratellanza. Casa. Speranza. Unione. Qui fenici, cartaginesi, romani, saraceni e normanni hanno lasciato un segno e il mare lo sa. Quando il mondo tunisino a Mazara riposa, il green pass attivo vi permetterà di godere del magnetico sguardo del Satiro Danzante, in onore del Dio pagano Dioniso.

Esiste una mezzaluna di terra selvaggia che il vento accarezza e modella.

E’ Macari e il suo golfo dal fascino senza fine, indiscutibile prova della potenza della natura e del lavoro indefesso del vento e della musica che coccola la vista di scogliere a strapiombo e ti viene na scossa ndo cori cu tuttu ca fora si mori, na mori stranizza d’amuri l’amuri, come canta l’eterno Battiato.

Macari è il luogo in cui è possibile trascorrere un pezzo di vita in una tela di Lojacono.

In Sicilia si possono tenere gli occhi fissi al cielo e come scrive Verga, “mi pareva che le anime nostre si parlassero attraverso l’epidermide delle nostre mani e si abbracciassero nei nostri sguardi che si incontravano nelle stelle”.

Lì è possibile ancora meravigliarsi, commuoversi, innamorarsi.

La parola felicità sembra non essere così lontana.

p.s. la felicità si avvicina sempre di più ad ogni morso di una pasta con le sarde, finocchietto selvatico e muddica; caponata, cassatedde, cazzilli, sarde a beccafico, fichi e fichi d’india, cannoli, cassata, biscotti di pasta di mandorla eccetera eccetera eccetera.

22 Feb

Al velluto illuminato dalla polvere di Apollo

Acqua salata.

Dicono che la cura per ogni cosa sia l’acqua salata: il sudore, le lacrime e il mare.

Mare.

E’ il ponte d’oro tra la mia tristezza e la mia gioia.

Per Calvino era un grande urlo azzurro.

Per me è seta fresca in primavera, il suono del verde smeraldo in estate e un fondo di caffè nelle bufere autunnali. E’ la mia biblioteca, la mia memoria, la mia grammatica, lingue straniere mai studiate.

Provocatore e Seduttore.

Oro e Argento.

Le mie ali e le mie radici.

Nostalgia.

Il naufragio dei pezzi della mia anima che le onde mi riporta indietro.

La mia rete.

Culla.

La superficie è un posto strano, affascinante e bellissimo a seconda delle ore del giorno e della notte.

E’ nella profondità che dorme la vera tempesta. Misterioso labirinto.

L’anima emana sempre un profumo particolare quando il corpo è a pezzi.

Per me il mare è la bussola. E’ una macchina del tempo che conserva lo spirito del bambino e conosce i tratti della nostra vecchiaia.

Benedizione.

E’ il diario dei segreti con la carta colorata e profumata alle rose, di giorni bruciati, inzuppati, maltrattati, vuoti come gusci.

E’ il rastrello sulla pelle.

Rifugio.

Il patio con l’albero di pesco piantato al centro del cuore.

D’estate trattengo il respiro, mi lascio irrigare e fiorisco ogni volta risalga in superficie all’ombra della boa.

Movimento. Coreografia inarrestabile.

Il mare in inverno è uno stop all’incrocio della pazienza.

E’ la fabbrica di colori, un cantiere persistente di memoria.

Le canzoni di un tempo shabby chic, quando la melodia era un abito elegante e proteggeva la tenerezza di chi, inaspettatamente,  sistemava i capelli dietro gli orecchi, al riparo dal vento.

Il valzer con giro armonico classico.

Puro jazz.

E’. verbo essere.

Tamburi.

Quando è in tempesta il maestrale gioca a fare l’arredatore d’interni degli abissi, sovvertendone la composizione e tutto si trasforma.

Mi piacciono le onde.

Arriccio le sopracciglia se le vedo d’estate.

In inverno, invece, rimandano alla foto di una comitiva che occupa il muretto del tuo quartiere, quella che ti aspetta sempre. Il tempo è scandito dalle canzoni registrate sul mangianastri, sul lato A e lato B dell’adolescenza.

Moltitudine nella solitudine che ti porti dietro come un’ombra e si siede accanto a te sugli scogli dalle mille forme e pendenze.

Onde.

Mi conquistano quelle che si nascondono, che si amano segretamente con tutta l’immensità che noi terrestri non possiamo concepire e che poi esplodono, giungono in superficie in solitaria, mai dimenticandosi  di aver formato un mondo che han chiamato Noi.

La più temeraria procede in apparenza narcisa e vanesia, ma sa che sarà raggiunta in una danza ottocentesca o in un walzer disegnato da Vettriano.

A tutelare l’incanto volano i guardiani gabbiani che dominano l’altezza, come scudi tra tutto ciò che è infinito e quel mantello di velluto che pennellano quando si presentano al cospetto del reale.

Lo sento sotto la pelle, nella gola, dentro lo stomaco.

Definitivamente.

Come tutte le cose che odorano di verità.

Le riconosci dall’intensità misteriosa.

E’ al suo cospetto che ricordo che non esista un tempo rubato.

E’ lì che rincorro un tempo dilatato in luoghi clandestini, luoghi-rifugio dove l’unica regola che valga è quella di provare a vivere facendosi del bene, con tutto il bene a disposizione, fuori da ogni vetrina sociale.

Come dice Lucio Dalla: “conosco un posto nel mio cuore dove tira sempre il vento e basta sedersi e ascoltare”.

Concedere.

Concedersi un tempo antico senza che le cose si consumino. Ci consumino.

Immagini di cui mi cibo. La parola ci fa rischiare e nel momento in cui la pronunciamo, dopo averla pensata e sillabata sulle vene, ci mette a nudo, come il bisogno di un neonato. Quando sono al mare non fuggo più da ciò che mi ferisce, perché è nelle crepe delle ferite che la pelle si rigenera, bagnata dall’acqua salata.

E’ come quando danzo. Sentire di essere cuore. Dappertutto.

Ogni volta è un quadro diverso e mi ci tuffo come nei dipinti di Mary Poppins.

Da piccola ero una privilegiata. Avevo due case sullo ionio, a Porto Cesareo. Nella casa dei nonni paterni trascorrevo l’intero mese di luglio e gran parte di agosto. Un grande dondolo illuminato dalla luce del sole a est mi accoglieva ogni estate, facendosi ogni anno sempre più piccolo. Sento ancora l’odore della stoffa accecata dal Dio Apollo che combatteva contro le forze dell’umidità. Odore di salsedine al fuoco.

Negli orecchi il tempo scandito dalle cicale e dal cigolìo degli ingranaggi da oliare, cui avrebbe pensato il nonno.

Con la guancia destra scavata nel cuscino dal bottone bollente e un piede penzoloni, osservavo il mio mondo con un solo occhio, dal basso, mentre Briciola, lo yorkshire dal codino alla Roby Baggio sulla fronte, stanava i ricci di terra e le lucertole che si intrufolavano in casa. E’ lì che ho scoperto di amare le cose fragili, quelle che lo sono solo in apparenza. Come i fiori di cera che abbracciavano il muro di fronte al dondolo.

Tenerezza.

Fragilità esplosiva di pulsione di vita. La bellezza era custodita nel secchiello pieno di acqua putrida e paguri. Non hai debiti e forse neppure crediti. Ricevi tutto senza sensi di colpa. Barattavi un ultimo posto in doccia pur di trattenere sulla pelle i merletti di sale, per non lavare via i ricami della felicità.

Doccia fredda.

Bellezza.

Onomatopeico sinonimo di felicità e di mare. Lavarsi era un rito. Una pratica da compiere in squadra, con le taniche di acqua potabile lasciate al sole a riscaldarsi.

Ricordi di odore di basilico che si tuffava nella salsa quando ancora la tua bava inumidiva il cuscino del letto.

Colazioni in pigiama al sapore di merendine comprate dal bagagliaio di un furgone-  just eat ante litteram, mentre speri che il tuo costume preferito abbia avuto il tempo di asciugarsi.

Quante volte l’ho indossato ancora umido e freddo, slegato dalle mollette della rete del terrazzo ancora non assolato.

La malinconia è subdola come un taglio con la carta. Non immagineresti mai che un oggetto così puro e sottile possa tramutarsi in una lama infuocata.

E’ sangue, carne e resistenza. E’ coraggio del sentirsi. E’ coraggio della retorica.

Sugli scogli, davanti al velluto illuminato dalla polvere di Apollo, mi congedo dalla persona che ero e lo uso per ripensarmi, per osservarmi e osservare il mondo che amo follemente, nonostante tutto.

Tutto.

Szymborska scriveva che tutto è una parola sfrontata e gonfia di boria. Andrebbe scritta tra virgolette. Finge di non tralasciare nulla, di concentrare, includere, contenere e avere. E invece è soltanto un brandello di bufera.

Il mondo che io amo è fatto da cose che sono talmente evidenti che mai nessuno prova a considerare.

E’ fatto da molteplici orologi che segnano tempi differenti con lancette a 3 dimensioni. Se saremo in grado di osservarle, allora potremo vivere non solo il tempo in cui viviamo, ma anche quello dei pensieri di persone vissute prima di noi, che hanno salvaguardato la bellezza, lasciandoci un mosaico immortale.

L’acqua ha memoria. Questo l’ho imparato una sera grazie al saggio Olaf e alla regina Elsa e Anna di Frozen.

L’acqua è quel vhs che vorresti non si logorasse mai. Come se i coriandoli della tua memoria fossero lì in quel nastro.  Casa.

Quando torni sulla terraferma, alla civiltà della città, trasportando granelli di sabbia tra le dita dei piedi e ti capita di passare la lingua sulla bocca, ti accorgi che al mare non vai solo per cercare qualcuno o qualcosa ma per imparare a conoscere una persona importante e quella sei tu.  E’ tutto rimescolato e riordinato. Ordine e caos. Armonia.

Non è mai troppo tardi per riempire le tasche di conchiglie e, nonostante il loro peso, concedersi di danzare sulle onde e sentirsi tempesta nella profondità.

Passioni.

Se ne abbiamo più di una allora siamo invincibili; è  la nostra più potente armatura nel momento in cui un virus deciderà di sovvertire l’ordine mondiale delle cose.

Le passioni sono  i tatuaggi sullo strato invisibile dell’epidermide, la mano delicata che scava  contro le macerie dei terremoti interiori, la guancia calda che coccola la tua nelle giornate gelide.

Nell’anima nessuno comanda. Lei resta dove si incanta. Pessoa aveva ragione.

E allora sono qui, sullo scoglio che ha segnato la mia pelle e chiudo gli occhi.

Sono viva.

24 Dic

Adda’ passà a nuttata!

Sono le 15.20 del 24 dicembre del duemilaventi. Sono davanti al pc e scrivo.

Fine.

Basterebbe questa frase per comprendere la portata rivoluzionaria di questo Natale in un mondo pandemico.

A quest’ora, in un anno qualunque, da quando ho memoria e contezza della realtà delle cose che accadono intorno a me, al di fuori dell’ immaginaria storia che scrivo nella mia testolina in modo parallelo a quella che vivo, a quest’ora dicevamo,  la regina Madre avrebbe già dato di matto.

La follia si evince da evidenti tratti distintivi: tono di voce superiore di  3 ottave, patologica ossessione che il cibo non possa bastare mai, così forte da obbligare una persona a turno a indossare un cappotto per essere pronta a entrare in un supermercato e salvare il cenone dalla triste e misera inedia; si sceglie accuratamente la tovaglia, che poi è sempre la stessa da saecula saeculorum e quando lo si fa notare, gli occhi della Regina Madre da verdi si trasformano in rosso focara di Sant’Antonio con tanto di strozzato pianto interiore e lapalissiana tendenza a farti ricordare che il tavolo di casa non è “normale” (che manco un pezzo di legno lungo sul quale mangiamo poteva esserlo a casa nostra) e trovare pezzi di stoffa che possano coprirlo non è semplice. Mutismo. Selettivo.

Vai avanti e procedi nel tuo compito assegnato.

Sì, perché il Natale a casa mia è rigorosa e meticolosa osservanza di riti apotropaici, la cui preparazione viene decisa durante l’ultimo boccone dell’ultimo piatto mangiato durante la festa di Sant’Oronzo il 26 agosto. La festa dell’Immacolata è un test. Un rodaggio di resistenza e resilienza, un esame a cui non puoi e non devi essere bocciato.

Prima dell’era “gruppi di whatsapp”, la regina Madre coadiuvata dalla Regina Madre Superiore, inizia il tour telefonico, tipo chiamata alle armi insomma, in cui si apre la prima fase:

Fase1: riunione telefonica per decidere la riunione per decidere il chi, il come e il quanto, perché per fortuna il quando, ce l’ha già imposto gesù bambino. Parola chiave: decisione!

Fase2: riunione “In presenza”. E’ la fase più divertente ma anche patologica che possa esistere. Il consiglio dei Ministri, per stilare i vari Dpcm di questo meraviglioso anno, ha chiesto l’aiuto da casa componendo il prefisso 0832, con tanto di chiacchierate in dialetto con la promessa di un pacco da giù. Muniti di quaderni, penne ed evidenziatori, le “femmine” delle varie casate danno vita a dolci melodie pennute, mentre i “maschi” si accasciano sui divani intimando di svegliarli appena tutto sarà finito e per tutto si intende il rientro dalla Befana. Si vola alto. Altissimo. Che il Natale non è mica una domenica bestiale qualunque. Ormai siamo abituati a mangiar da Cracco grazie a MasterChef e fare dolci che Igino levati proprio. Ed ecco che entra in gioco la politica. Il partito della tradizione vs il partito dell’innovazione. Il primo, capitanato dalla Regina Madre Superiore, è teatro puro. Commedia dell’arte. Napoli ricorda ancora la sua performance migliore. Il plot? Si punta alla compassione e ai sensi di colpa sui più giovani, iniettando in vena il farmaco della memoria. E’ di fondamentale importanza scrivere ed evidenziare sul quaderno che si potranno pure creare piatti gourmet, ma bisogna passare sul cadavere della Regina Madre Superiore se non le si lascia l’onore e l’onere di pensare ai soli 300 piatti della tradizione culinaria leccese dei giorni in rosso natalizio. Il partito dell’innovazione ci prova. Le nobil-donne delle casate non si arrendono, attingendo a tutte le fonti di creatività. Si guardano negli occhi, scrutano il nemico, in un misto di paura, mistero e ammirazione. Annotano le idee.

Fase 3: divisione dei compiti, moltiplicati per i giorni di festa. La dimora della Regina Madre è una costante che non può e non deve diventare variabile, pena una pandemia devastante. Ah, questa è un’altra storia.

Spoiler- sui 300 piatti della tradizione, la Regina Madre Superiore con l’aiuto del Padre di colui che si festeggia nella mangiatoia, attua la moltiplicazione dei pani e dei pesci e non si sa mai bene come, il bagagliaio sforna teglie che Mary Poppins è entrata in analisi dopo aver osservato la maestria della suddetta.

Il Natale a casa mia è sempre stata una tragicommedia. Abbondanza. Rumore. Discussioni lunghe 3 giorni, messe in pausa e poi riaperte per altri 3 giorni. Quantità.  Abitudini. Le cose che restano sempre intatte. Parole che sai già quando saranno pronunciate. Risate fragorose che fanno male le costole. Come quella volta che si decide di prendere un vestito di Babbo Natale in prestito da un amico salumiere. Era come indossare caciocavallo e salame ungherese. Risate che restano immortali.

E poi ci sono gli odori. Io le ho testate le fragranze delle nuove candele limited edition Natale 2020 o le creme corpo create dagli elfi. Ma mai nessuno riuscirà a imbottigliare quella magia olfattiva che ti pizzica e stuzzica mentre studi, china sui libri, incosciente e pronta a illuderti di cambiare il mondo. Mentre niente e nessuno può distrarti dalla secchionitudine, una squadra di donne in cucina scrive la storia dell’eterno. Buccia di mandarino e olio bollente e nota alcolica che abbraccia un tenero pan di spagna. Mandorle che diventano pasta e si trasformano in pesce dall’occhio di cioccolata e colorati zuccherini che nessuno mai mangerà, adagiati sul piatto di portata, rigorosamente scansati e per sempre incollati dal miele del pucceddruzzo.

Darei indietro tutti i miei esami universitari pur di sentire ancora quell’odore che invadeva casa per giorni, intrappolato in ogni fessura e sugli abiti del giorno prima. E tu sei felice, nel frattempo. Come dice il buon Tabucchi, le persone possono essere felici nei loro frattempi.

Quella squadra di donne capitanata dalla Regina Madre Superiore è la condivisione ante-facebook. La storia di instagram prima che fosse creato. Testimonianza. Mani che toccano e bocche che parlano per raccontare, perché sia fatta la storia, La storia, dei ricordi vissuti occhi dentro occhi. L’assaggio è obbligatorio, pena la morte, quasi. E si canta. Anche quando le ferite sono ancora sanguinanti, anche quando la morte ha spalancato tutte le porte facendo volare pezzi di noi, anche quando le rughe diventano sempre più belle e le cartilagini più deboli, si canta per esorcizzare la paura, per ribadire che siamo vivi per i vivi e per chi quel vento se l’è portato via.

La regina Madre Superiore canta di continuo. Ininterrottamente. O parla o canta e a volte riesce a farlo anche in simultanea. La tv è accesa h24. Ha bisogno di non sentirsi sola. Mai.

 Da Nilla Pizzi a Renato Zero, da Paolo Conte a Iva Zanicchi nella versione pre centoooo centoooo centooo. Mi stringeva il mignolino nella sua 126 bianca in cui entravamo in 6 e mentre cambiava la marcia della macchina, cambiava anche canzone. Sicurezza. Erano momenti di vita quotidiana, sempre gli stessi, momenti che ti facevano sentire parte di un cosmo che ti voleva, che ti stringeva il mignolino con le sue certezze, perché ci sarà sempre qualcuno che se ti ama ti chiede se hai mangiato e ti canta una canzone al telefono e io quei momenti li ho vissuti sul serio, non erano un sogno, li ho fatti miei, sono miei e la vita è meravigliosa, malinconica e allegra al tempo di un cambio di una marcia di auto.

A casa mia, Natale significa-(va) spettacolo. Un anno ci ho persino comprato la colazione con il cachet diviso con i debuttanti della cuginanza srl. Che a noi ci piace ridere assaje. Prendendoci in giro. Ironia.  Bellezza.

Sono certa che questa parola così pregnante e importante per me provenga da quei giorni che profumano di mandarino e cannella. L’ho respirata, sfiorata, fuori tempo e senza tempo.

Attese lunghe una cotta di frittura. Cura.

In questo tempo sospeso e che mai avremo indietro, penso ad Arya.

Vorrei donarle pezzi di storia che ho avuto la fortuna di scrivere e vivere. Vorrei consegnarle in dono la spensieratezza, la presunzione, la “moltezza” dei giorni dei Natali passati, di quando i pensieri sono sempre stati pesanti ma la leggerezza calviniana era più coraggiosa. I nostri figli sono fortunati. Questo è da scrivere a caratteri cubitali. Nonostante tutto. Crediamo siano così immensamente fragili che proviamo a disegnare per loro un mondo un cui non esista il “nemico”, in qualsiasi forma e sembianza possa svelarsi.

Io ci provo, sul serio. A parlarle di un mondo di persone che possano fidarsi vicendevolmente, in cui gli errori sono ammessi e il perdono è il più audace tra i doni. Ci proviamo a mostrarle la strada della paura. Che si può percorrere, tutta quanta. Che la perfezione è da scarabocchiare e che si deve cadere per sentirsi parte di un tutto che è colorato. In un attimo di lucidità, realizzo che io sia stata una piccola coccinella che ha permesso di trasportarla da noi e che non mi appartiene. Vorrei insegnarle il potere della risata. Farle sentire il suo fragore ed educarla a riconoscerlo. La risata che rende magico un momento. Quella che viene dalle vene. Ma anche la bellezza nascosta dietro una lacrima scaturita da un’emozione.

Natale, per esempio, è il periodo dell’anno in cui piango di più. Lacrime in cui dimora una gigantesca forza che mi spinge a sentirmi viva. Caos emotivo. Confusione. Presenza. Assenza.

E’ nella perdita che si trovano cose inaspettate. E’ nella confusione che si varcano i confini di spazi impolverati e dimenticati.

A Natale mi metto sempre un po’ in discussione. Molto spesso resto delusa ma non importa. Significa che ho vissuto sul serio. Pianificare fa rima con odiare, se stessi e la possibilità della scoperta di nuovi orizzonti. Andare in frantumi.

Il venti –venti ha accelerato questa operazione-rivoluzione interiore.

Ho lentamente imparato a evitare di riflettere la mia immagine nello stagno con l’acqua gettata dalle etichette degli altri. Eccesso.

Ci hanno insegnato che la fragilità è una colpa,

invece spesso le cose più belle dell’esistenza

sono fragili, vanno protette

e allora anche al perdere

diamogli un’accezione bella.

Come perdere i pregiudizi.

Oppure quando capita di perdersi

in una città nuova

e per conoscerla ci affidiamo a uno sconosciuto.

Perdere, perdersi, per comprendere meglio.”

(Ezio Bosso)

Il mio desiderio, in questo atipico e fuori-luogo periodo natalizio, è quello di educare mia figlia alla consapevolezza. Quella che ti fa agire senza dover piacere a tutti ma con l’innata sensibilità di provare empatia per la felicità o il dolore altrui e poter fare qualcosa, se necessario. Riconoscere la strada interrotta dalla sofferenza e averne cura e rispetto, per sé e per gli altri. Quel rispetto che ho visto massacrato da ogni forma di sgradevole e illusoria onnipotenza umana, di chi pensa di sfidare la sorte, di chi “meglio vivo e vissuto oggi che morto chissà quando” fanculo il covid faccio quello che voglio”.

E’ che facciamo più caso alla pioggia che ci bagna, ci sporca e ci rende tristi, restando intrappolati, con la testa bassa, infastiditi dalla pozzanghera, ma il colore del cielo quando piove, lo conosciamo sul serio?

Dovremmo trattare le parole piene di odio come i cuochi usano le spezie e quelle piene di amore sincero come lo sguardo degli astronauti in orbita.

Ri-conoscere. Conoscere nuovamente l’importanza dell’assenza che si fa presenza. La mancanza. Persino di tutto quel sub-strato natalizio che ci infastidiva, procurandoci un’orticaria che durava il tempo di una vacanza. La mancanza. Di rituali, intrecci e incastri di incontri e scontri. Di quando “si scendeva” dal norde e la prima domanda, appena sbarcati sulla luna salento era: emmmoh quando ve ne andate?

Amicizia. Di quando, se volevi trovare un amico “emigrato”, sapevi che c’era un luogo, certo e comprovato da anni di statistiche accurate: il caffè letterario( si chiama caffè letterario ma io, in anni e anni di onorata carriera,in qualità di  amica di persone che lo hanno frequentato, non ho mai visto nessuno bere quella bevanda in tazzina).

La mancanza. Degli auguri porta-a-porta che Vespa levati proprio, città-periferia-paese. Che ti ci devi sedere per forza a tavola, dopo aver mangiato l’equivalente in lunghezza dei lavori per la Salerno- Reggio Calabria e non puoi rifiutare, mai dire di No ad una mamma-zia-nonna dei tuoi amici, con l’imbarazzante momento sguardo-pietà che si scioglie solo dopo i primi sorsi dell’ennesimo caffè della giornata e il piatto di dolce fatto in casa aperto proprio per l’occasione. In pochi secondi ti chiedi il motivo che ti ha portato a non chiedere al tuo amico di incontrarti sulla tangenziale, ma poi, osservi la rughetta che l’anno prima non solcava il viso della mamma, ascolti i racconti della lontananza o gli emblematici eventi che hanno scandito il tempo passato.

Ed è in quel momento, tra presepi e alberi di natale scintillanti e a volte imbarazzanti, che sospiri e ti immergi nell’aria che sa di certezze.

Le piccole cose. I cerotti sulle ferite della propria solitudine, gli evidenziatori, i fari sulle persone che restano. Sono proprio loro i luoghi dove fermare la nostra frenesia e incontrare la nostra anima.

Quelle persone che odorano di Natale, tutto l’anno.

E allora va bene così. Non ci sarà nulla di quel magnifico caos nel quale sguazzavo ogni Natale. Ma ci siamo. Siamo qui. Tutti o quasi tutti.

Vivi, nonostante tutto!

Buon Natale. Addà passà a nuttata.

23 Set

“Al tempo…signore distratto”

Ci abbiamo davvero provato? Ad essere migliori intendo.

Non parlo della bontà del genere umano in quanto tale, della correttezza di una comunità di persone che hanno dovuto indossare guanti e mascherina e salutarsi con il gomito. Ci abbiamo davvero provato a scendere dall’Olimpo della nostra individuale esistenza e a metterci al servizio delle reali esigenze? In fondo,  bramiamo tutti di essere visti da qualcuno, persino i più timorosi introversi sognano che qualche sguardo si posi delicatamente come piuma, solleticandone l’esistenza. Sentirsi toccati dagli occhi. Ci abbiamo davvero provato a sfidare ogni giorno il nostro destino con l’umiltà di chi sa di essere ad ogni costo fortunato?

 Ci abbiamo provato ad avere paura e a raccontarcela?

«Non devi mai dire che hai paura, piccola Samia. Mai. Altrimenti le cose di cui hai paura si credono grandi e pensano di poterti vincere.»

L’ho letto in un libro dalla copertina color pastello che profuma di campo in primavera, il frinire delle cicale in lontananza, mentre le farfalle vanitose si mettono in posa. La delicatezza dell’immagine in copertina confonde il lettore. Lo accarezza e poi lo prende a schiaffi dopo aver tolto l’ àncora e iniziato a navigare tra le parole di Giuseppe Catozzella, lo scrittore Premio Strega, che ha dipinto con la sua penna il quadro di NON DIRMI CHE HAI PAURA, la storia della piccola somala Samia Yusuf Omar. E’ la vita di chi, con gambe magrissime e piedi veloci , voleva dare senso alla verità tumultuosa dei sogni, oltre la guerra del suo Paese, al di là della estrema povertà. La storia di una ragazza nata per correre durante la crudeltà della guerra civile a Mogadiscio, tra clan ed etnie. Correre è un bisogno. Un’esigenza e urgenza di riscatto, come donna, come simbolo del suo Paese martoriato. A soli 17 anni è riuscita a partecipare alle Olimpiadi di Pechino del 2008, correndo i 200 metri in 32 secondi e 16 primi, realizzando l’ultimo tempo di tutte le batterie.

“Ho tagliato il traguardo quasi dieci secondi dopo la prima, Veronica Campbell-Brown – si legge nel libro – Dieci secondi, un’infinità. Non ho provato vergogna, in ogni caso. Solo un forte senso di orgoglio per il mio paese. Istantaneo, appena passata la linea del traguardo. La gente ha continuato ad applaudire”.

Dopo Pechino, Londra. Era lì che voleva arrivare. Alle Olimpiadi del 2012.

È suo padre che la incoraggia a diventare un simbolo di speranza e di liberazione per le donne somale.  “Vincere per me, vincere per dimostrare a me e a tutti gli altri che la guerra poteva fermare alcune cose ma non tutto, vincere per fare felici aabe e hooyo”.

La libertà costa sempre troppo quando ci sono degli “ismi” di mezzo. Gli integralisti prendono il sopravvento  e  Samia, ormai orfana, si rende conto che ha solo un’opportunità per inseguire i suoi sogni: fuggire.

Fuggire per la libertà.

“Ma il destino con me poteva scegliere di fare quello che voleva. Io sapevo benissimo dove volevo arrivare. Il vento, con il mio magro corpo, ha sempre avuto vita dura. Sono io che l’ho sempre mosso, al mio passaggio. Sono io che ho imparato ad usarlo come spinta dietro la schiena, per farmi volare”.

Il viaggio verso la libertà è lungo ottomila chilometri fino ad arrivare al mare “dei migranti”,  quello nostro.

Non dire che hai paura, Samia. Glielo sussurrava con fermezza il papà.

Voglio pensare che il suono di quelle parole abbiano cullato la piccola atleta durante l’infernale viaggio.

Ma, mentre leggevo,  immobile e testa china su quelle pietre nello stomaco, avrei voluto acconciare i capelli di Samia, spettinati dal vento, sistemarli dietro le orecchie con una mollettina colorata,  come faccio con Arya, e dolcemente stringerle la mano, sulla quale avrei scritto con un dito senza inchiostro, lettera dopo lettera:

   v  a  b e n e  s e  h a i  P a u r a.  P u o i.

Le mancava l’aria persino per i sogni.

 Puoi dirlo che hai paura piccolo cerbiatto dalle gambe lunghissime. Paura di deludere te stessa e le persone che ti amano. Per una volta non sentirti invulnerabile, invincibile. Puoi sentire il peso della tua fragilità e della tua angoscia. Puoi pensare di aver fallito o di aver sbagliato tutto. Il tuo sogno non sarà meno potente e tu non sarai meno Samia. Ci si può guardare allo specchio e non riconoscere l’immagine che si ha di fronte.

Si può dare un nome alle ombre nere cucite sotto i talloni della nostra esistenza.

Corri, Samia, corri come se non dovessi arrivare in nessun posto…

Vivi, Samia, vivi come se tutto fosse un miracolo! Quel miracolo sei stata tu.

Ammettere di avere paura è un atto di coraggio e di amore. Provare ad alzare la polvere magica dei sogni per sentirsi vivi è da super eroi senza mantello e senza maschera in questo mondo indaffarato e inconcludente.

La stessa paura che non ha bloccato Willy. La paura non ha vinto sull’egoismo, non ha avuto la meglio sull’indifferenza e sull’individualismo. Willy ha gettato la fune. Architetto di un ponte tra la solidarietà e l’odio, tra chi agisce mosso dall’amore e chi resta a guardare, non per paura ma per atavica superficialità.

Sì, un ponte.

Fare finta che non esistano decadenza, dispersione, rassegnazione, la semplificazione dei contesti, l’ignoranza della troppa informazione determina la costruzione di un acquario di plastica in cui nuotano pesci giganteschi. Prima o poi la base non riuscirà a reggere il peso e inonderà tutta la casa.

Fino a quando sarà sempre colpa del “cattivo”, del “diverso”, del “violento”, dell'”estremo”, ci troveremo assolti e sollevati dalla responsabilità individuale, sentendo queste “tragedie” come lontane da noi, storditi alla visione del servizio giornalistico in tv nel nostro rifugio personale, in fondo serenamente consapevoli che dimenticheremo anche questa volta.

 Fino a quando le parole suoneranno una musica che si sente solo in lontananza, fino a quando concetti su cui si basa il vivere umano resteranno catalogati come distanti, assenti, alieni, separati dalla realtà e delegati ai capri espiatori altrettanto imprecisi, saremo sempre più smarriti e impotenti e ci farà comodo.

Il VUOTO.

E allora per evitare di inciampare nel bandolo della matassa infinita delle colpe altrui, mi prendo io la colpa. Inizio da me. Come donna. Come mamma. Come moglie. Come amica. Come sorella.

Perché diversità, uguaglianza, mutuo soccorso, solidarietà, non sono confutabili. Non sono neve al sole.

Se smettessimo di pensare a loro come ideali, come prerogativa di una cosa troppo grande rispetto a noi piccoli individui; se la finissimo di giustificarci contro lo Stato, questo strano mostro a mille teste che non ci aiuta e la società chetelodicoafare mancopennienteh, allora potremmo fare un buon uso del nostro essere “persone”.

Da dove si inizia? da quella bizzarra composizione che chiamiamo famiglia, nella più complessa e colorata accezione che si possa concepire.

Si potrebbe iniziare a parlare. A parlarci.

Si potrebbe iniziare a raccontare ai nostri figli che andare a scuola non libera i genitori dalla presenza fastidiosa dei piccoli, scuola come sinonimo di parcheggio socialmente accettabile. Si potrebbe iniziare a imparare per primi e poi provare a insegnare ai nostri figli che le maestre o i maestri sono i custodi del cervello dei propri alunni, giardinieri dei loro pensieri, guerrieri di fede perché credono o meglio,  dovrebbero credere nella diversa capacità e particolare talento di ognuno e come tali, come persone prima e come professionisti poi, vanno rispettati.

Rispetto.

C’è vuoto di rispetto.  Vuoto di comprensione.  Vuoto di esempi.

Si potrebbe iniziare a insegnare che i colori sono universali. Sono i gusti ad essere particolari.

Se riuscissimo a spiegare con semplicità e verità che maschi e femmine non devono odiarsi, che non esistono privilegi per il fatto di appartenere ad un cromosoma, che gli errori così come la bravura appartengono al singolo individuo e alla sua azione e che i giudizi sono bombe che mutilano, etichette waterproof che definiranno la personalità e le scelte future, allora potremmo sperare di avere figli meno arroganti, di esserlo noi per primi. Mi rifiuto di educare mia figlia alla lotta per la sopravvivenza. Al principio filosofico hobbesiano per cui l’uomo è lupo per l’altro uomo, per cui la natura umana è fondamentalmente egoistica e saremmo spinti soltanto da un innato istinto di sopraffazione.

Mi ribello all’idea che ci sia costantemente un nemico da abbattere.

Sotto assedio.

Difesa. Attacco.

Se ci fosse un master di quinto livello supersayan per la trasformazione del genere umano in umano essere dotato di empatia e gentilezza, le aule dovrebbero essere stracolme.

Empatia.

Gentilezza.

Attenzione.

Sguardo.

La cosa più nobile che dovremmo insegnare a chi abbiamo avuto la fortuna di mettere al mondo è la capacità di guardare negli occhi, di osservare cosa stia accadendo fuori dal nostro microcosmo personale e sentirci parte della diversità che è bellezza.

Mi oppongo al giudizio e al pregiudizio di chi etichetta la sensibilità come debolezza.

Voglio e pretendo attenzione, da donare e da ricevere. Relegare i sospiri generosi e le mani che si stringono o le spalline che sostengono visi tristi ad aliene minoranze da bandire.

Essere attenti ai fiori di campo, quelli irriducibili, delicatissimi allo sguardo ma talmente potenti da riuscire a fiorire tra le fessure di un tombino o ai bordi dei marciapiedi, essere attenti a non calpestarli.

Essere attenti alle parole che si usano, che possono essere piedi che percuotono anime.

Essere attenti alle distrazioni degli altri; agli abissi che uno si porta dentro; essere attenti alla poesia e non provarne vergogna.

Considerare le cose belle del mondo. Quelle belle vere.

Siamo bravissimi a svincolarci sempre dalle cose che ci riscaldano. Stiamo lì, come irriducibili ragionieri pronti ad annotare sul file excel dell’esistenza le sciagure che sbucano nel nostro io.

Abbiamo tutti un dono che non va sfumato sulla carta carbone della vita.

Su un treno regionale veloce Torino-Milano, il mio sguardo e il mio pezzo di cuore si sono abbandonati alla bellezza di un papà non vedente che veniva accompagnato da un bimbo che avrà avuto più o meno l’età di Arya. Erano la cappella Sistina insieme,  quei due. Saliti ad un paio di fermate successive alla mia, le più affollate e dispersive. Lo gnometto era un abile capitano che fiero e indomito attraversava il corridoio in tempesta e portava in salvo il suo grande esploratore. La sua immagine, per me, è stato l’emblema di quanto serva spostarsi dalla piastrella in cui siamo per avere una visione completa, la messa a fuoco su alcuni dettagli fondamentali del nostro vivere. Erri De Luca scrive che “mantenersi” resta il suo verbo preferito. Tenersi per mano, tenersi stretti. Sorreggere pezzi dell’altro, senza parlare, con un tocco.

Nei periodi di totale oscurità scegliamo gli occhi che possano guidarci.

Provare ancora stupore. Di quando lo scirocco improvvisamente ti raggiunge sotto al viale di pini, ti beffa sollevando la gonna del tuo vestito e provi una gioia inaspettata, un imprevisto che non punge ma solletica.

Vorrei provare ad insegnare a mia figlia a sentirsi fragile. Abbiamo sempre paura di mostrarci fragili e invece è il salvagente dell’ umanità. Ciò che ci fa restare immensamente bambini.

Il mondo ripudia il tempo perso a provare dolore o a restare in silenzio e sentire il frastuono dei brutti pensieri.

Fragilità! Non è un sinonimo di friabilità. Non siamo biscotti friabili che si sbriciolano sotto il peso di paure ataviche. C’è tanta bellezza nelle cose fragili. Ci sono ancora persone che annusano le pagine dei libri appena acquistati e saltellano per aver scartato un regalo inaspettato. Ci sono ancora persone in grado di sorprendersi, provare meraviglia per qualcosa o per qualcuno.

Ci sono ancora persone che riescono a togliere la linguetta della felicità, quella che un bimbo trova quando maneggia un giocattolo a pile. Ci sono individui-musica. Persone-poesia che disinfettano alcune ferite ataviche e rimuovono le garzine alle ali,  mossi dalla strana magia che regala il verbo amore.

Poesia.

Facciamogliela vedere la luna ai nostri figli. Tutti con il naso all’ insù. Avremmo fatto buon uso della punteggiatura del quotidiano, dando nuovo senso alle virgole e ai punti. Balliamo sui puntini di sospensione sentendoci nudi sotto una pioggia di luce, saltellando da un passato a un presente pieno di colori. Si può vivere un pezzo di vita sgrammaticata e folle senza sentirsi in colpa, protetti dall’ incanto della favola senza principesse e principi, ma di pelle che sfiora altra pelle, di abbracci che il respiro te lo donano, di carne che trasuda fuoco.

Rarità!

Non ci prenderanno per pazzi e anche se lo fossimo, anche se fossimo alieni leggeri arrivati da un altro pianeta, ci sentiremo umili artisti che contribuiscono all’arte più grande di tutte, come scriveva Brecht: quella di vivere!

Possiamo ancora farcela. A sentire con gli occhi e a vedere col cuore intendo. Ad arrossire per un complimento inaspettato, a rispondere all’apatia con l’empatia, a commuoverci davanti alla notte stellata di Van Gogh senza vergogna, a opporre al qualunquismo la responsabilità dell’Io che si trasforma in Noi.

«Non so che poeta io sia stato in tutti questi anni. Ma so di essere stato un uomo:

perché ho molto amato, ho molto sofferto, ho anche errato cercando di riparare al mio errore, come potevo, e non ho odiato mai. Proprio quello che un uomo deve fare: amare molto, anche errare, molto soffrire, e non odiare mai».

Ecco, se Peppino Ungaretti fosse qui, sarebbe questo il regalo più bello per i miei impellenti 35 anni: con le sue parole mi ricorderebbe che posso amare molto, soffrire assai e sbagliare di più MA non odiare mai!

26 Mar

Pioverà luce!

Marzo 2020.

L’ultima volta che sono rimasta bloccata in un tempo “sospeso” in casa è stato quando eri nella mia pancia e mancavano 2 mesi al fischio finale, quando avrei dovuto considerarti come il libro più antico che sia stato mai trovato, nel luogo più sacro che potesse ospitarlo, letto in religioso silenzio e trattato come chi sa che oggetti di tale portata sono un’eterna rarità.

Ora tu hai 4 anni, la stessa età che avevo io quando il 9 novembre del 1989, mentre si pranzava tutti insieme a casa della nonna Italia, il telegiornale mandò in onda le immagini di un fiume di folla in festa, perché in una notte, la storia cambiò per il mondo intero, dissero.

C’era un piccone contro la cortina di ferro e un muro, a Berlino, che si stava sbriciolando.

Avevo 4 anni, la tua stessa età, eppure ricordo benissimo quei ragazzi che applaudivano, che si abbracciavano in lacrime e la gioia che invadeva quello schermo. Ed è viva dentro me la riflessione che fece nonna ad alta voce: “ha cangiatu lu munnu”.

 E il mondo era cambiato davvero. Erano arrivati gli anni 90, i pomeriggi dopo la scuola rinchiusi in cameretta, a salutare i germogli di lenticchia che fioriva,  interrata in batuffoli di cotone rubati al cassetto “sanitari” mentre ti sentivi figlia di Marie Curie o nipote di Mendel, con la stessa identica espressione beota che disegnava il volto mentre si cantava la sigla di Bim Bum Bam e Uan diventava il nostro migliore amico rosa. La nostra fervente agenda quotidiana era scandita dagli orari degli episodi dei cartoni animati, i più importanti Maestri di vita, grazie ai quali abbiamo imparato il valore dell’attesa, con il Sommo Oliver Hutton di Holly e Benji, che rimanda all’idea zen di dover aspettare il giorno dopo per sapere se , quella palla che il campione dalla maglia bianca aveva calciato con vigore e rimasta sospesa in  aria  come uno tsunami, fosse davvero entrata in porta e non esisteva il telecomando magico che metteva pausa o la didascalia in basso a destra: “riproduci episodio successivo”. Quello era. Ti doveva andare bene. Dovevi porre attenzione. L’appuntamento era per il giorno dopo, stesso posto stessa ora. Dovevi sognare con ansia. Grande festa alla corte di Francia, canticchiavi e la domanda esistenziale che ormai frullava nella testa era se davvero Oscar fosse contenta di essere donna, perché poi tifavi per Andrè; Dio quanto tifavi per quel gran figo di Andrè, quell’Amore impossibile durato quanto una Rivoluzione ma rimasto immortale. E  iniziavi ad innamorarti chiusa in camera, davanti alla tv e la colonna sonora dei nostri anni migliori veniva registrata su musicassetta con tanto di nastro adesivo, la stregoneria che ti consentiva di  registrare tutte le volte che potevi senza cambiare cassetta, tappando dei buchetti. Si piangeva stringendo il walkman sony con Bryan Adams

e speravi di diventare grande per fare parte del mondo anche tu.

E poi grande lo sono diventata davvero, mediamente, ecco.

Per chi come mamma e papà tuo ha scelto di frequentare l’Università fuori città, l’#restoacasa ha tratti famigliari. Durante la preparazione di un esame, quando non avevi la necessità di varcare l’uscio per immergerti nel mondo dei mezzi pubblici romani che ti avrebbero condotto nel sottosopra demogorgonico della Sapienza (perché figlia mia, io ho questo ricordo: l’immagine di una città Eterna che odora di petali di rose che ricoprono di rosso il Lungotevere, Fellini vivo che passeggia sotto ponte rotto, il sole rosso di Mirò che illumina il Colosseo, la tua mamma che come Poppy dei Trolls saltella felice in via dei fori,  che si scontra con  la grigia e cupa e demoniaca sede di Scienze Politiche della Sapienza), quando si doveva studiare, dicevamo, si avvertiva il mondo con DPCM (DECRETO DI MARI MINISTERIALE) che veniva stampato in Times carattere 100 ed emanato con fare apocalittico, letto in conferenza, con gli occhi da posseduta e i capelli che a Samara glieli ho disegnati io: MI CHIUDO!

I giorni passavano ma era sempre un lunedì tetro e angosciante. Ma quando la data dell’esame era vicina, si annotavano gli orari di apertura del più vicino centro TSO per te e per quelle eroiche persone che si trovavano a dialogare con ciò che si era impossessato del tuo corpo e anima. La nonna Italia ad esempio. E’ sempre stata dotata di magia nera. La potentissima capacità di chiamarti nell’unico momento della giornata in cui decidi che puoi nutrirti, di quel nutrimento che poi è stato fornito proprio da lei, incalzando domande da sacerdotessa con in mano il Rosario. E via di domande:

avete mangiato la parmigiana? E tu, vestita di nero, testa china e cantilena da tarantata, rispondi siiiiiii.

Era buona? Siiiiiiiiiii

Era abbastanza? Siiiiiiiiiii

Forse non era sufficiente? Siiiiiiiiiiiiiiiiiiiii

Amen.

Netflix ancora non era entrata nei nostri cuori e portafogli ma esisteva il fantastico sottobosco borderline dello streaming. 40 minuti di pura estasi cerebrale in stand by che ti spingeva financo a lavarti per dignità umana tua e di chi condivideva il divano con te. I resti di questa esperienza mistica li conserviamo ancora negli armadi. Tute detronizzate a pigiama e pigiami con cui si poteva prendere fuoco per riscaldarsi nelle fredde giornate romane. L’irritabilità portava il mio nome. L’apatia giocava a roulette russa con la parte new age della tua anima.

E’ faticoso lottare contro se stessi ogni minuto del giorno, ogni giorno per anni.

Il coronavirus, quel buffetto virus respiratorio che ha la punta a forma di corona e che tu a 4 anni ne conosci a menadito i sintomi, soprannome amichevole covid-19, un lunedì di un marzo di un anno bisesto, mi ha schiaffeggiata e ha aperto la scatola nera dei ricordi.

Ricordi di anni che puzzano di spreco. Quando un senso di onnipotenza mi spingeva a pensarmi capace di un dominio completo sulla mia esistenza. Erano gli anni in cui non conoscevo altro modo di vivere che l’impegno perpetuo nel tentativo di soddisfare l’ideale di eccellenza, famelica ricerca di specialità, fame di superiorità emotiva che non conosceva tregua. Per una ragazza che soffre di disturbi alimentari come l’anoressia, il grande Inverno è terrificante. Prima di vivere in quarantena, (tempismo perfetto da covid 19) ho cestinato quegli orribili pigiamoni di puro pile 100% formato famiglia dentro ai quali celavo il corpo macilento. Il mio stile di vita era insostenibile. Potevo funzionare perfettamente nutrendomi solo di carote e una mela al giorno. L’ossessione era una radio sempre accesa, h24. Non taceva mai. Credo che il mio peso minimo sia stato 38kg per 1.72 di altezza, che a pensarci bene non so come una fragilità su due gambe abbia potuto avere tutta quella energia. Sentivo le cose con troppa intensità. Prima del tuo arrivo, amore mio, non avevo mai provato o forse mai voluto imparare a spegnere l’interruttore. Non ero abituata a mostrare pubblicamente le mie debolezze. Rallentare è un verbo che odora di cambiamento e coniuga la vita. Bisogna avere coraggio.

Essere costantemente in movimento sembrava dondolarmi, mi concedeva la quiete dopo la tempesta che io stesso creavo. Io ero tempesta. Una volta, un po’ di anni fa, lessi che per sconfiggere la malattia era necessario qualcosa di più grande di essa, perché nulla è impossibile.

Ogni volta che sfidi la paura, ogni volta che fai qualcosa di impossibile, la paura si sgretola come quel muro che ho visto in tv quel 9 novembre. La malattia mi ha resa vulnerabile e al tempo stesso capace di reagire alle avversità. Mi ha evidenziato il lato oscuro scarnificato e illuminata da una luce accecante negli occhi, famelici di vita.  Mi ha costretto a fermarmi, a guardarmi dentro per ammettere che si può essere deboli, soli, conoscersi e riconoscersi nella solitudine. Disgusto. Bisogna arrivare a provare disgusto per essere pronti a smettere di vivere come il mostro di se stessi.

Talvolta ci si deve fermare. Stop. Pausa. Accettare la sospensione. L’assenza.

Arriva un momento in cui addomesticare le proprie fragilità potrebbe essere la sfida più grande. La frenesia cui ero abituata colmava la consapevolezza che se mi fossi fermata a pensare, avrei voluto afferrare qualcosa che non esisteva.

Accettare.

Si può.

Si può accettare di non andare di fretta come se il tempo sia più prezioso della vita stessa; si può accettare che non sia un peccato mortale se il tempo corre più velocemente di noi. Alzarsi di notte mentre tutti dormono per allenarsi per terra accanto al letto che dovrebbe sentirti addosso e svegliarsi mentre ancora tutti dormono per mangiare libri non è lucidare con polvere d’oro le lancette dell’orologio che abbiamo a disposizione. Il mondo non è un binario.

Bene-male

Vero-falso

Sì-No

Zero-cento

Finito-infinito

Possiamo incepparci. Le pile possono scaricarsi. Abbiamo il diritto di perdere il filo. 

Ci può sfuggire qualcosa.

Contaminazione.

La vita è un gigantesco imprevisto. Non è mai pura e non è mai del tutto sporca, amore mio.

La vita è come la tua mano che colori di arcobaleno. E’ un dolce compromesso. E’ litigio e rottura. Stanchezza.

E’ perdono. E’ respiro.

Non occorre dare un senso ogni giorno per avere il diritto di esistere. Agitare i secondi per ricavarne piacere non ha senso. Ci siamo incatenati ad una idea di libertà fasulla e falsificata del nostro fare quotidiano pseudo produttivo che ci fa sedere sul trono della realtà, ma a penzoloni.

La mancanza di pianificazione è un reato.

Poi è successa una cosa che mai avremmo ipotizzato accadesse e che ha cambiato le nostre vite. Non lo so se le ha cambiate per sempre, ma di sicuro ha rivoluzionato la quotidianità. Quando le cose mutano per tutti, allora c’è un effetto domino e tutto resta in aria, come dondolato da un vento leggero.

Io non so nulla della vita, ma forse tra gli errori più grandi che possiamo inserire nella categoria “da non fare” c’ è quello di prepararsi sempre al peggio.

Stiamo provando una sorta di vertigine. Montagne russe.

C’è chi vede tutto con estrema lucidità e chi potenzia la propria  propensione al disfattismo. Ci sono momenti, come questo del buffo coronavirus- monello come lo chiami tu, che non bussano alla porta. La abbattono ed entrano in casa con un boato. E quando arrivano ci sentiamo disarmati.  Ma non è una guerra.

Quella che stiamo vivendo, figlia mia, non è una guerra. Dovremmo smetterla di cercare ovunque un nemico contro cui batterci. Non esistono frontiere, cartine geopolitiche, nazioni più o meno strategiche.

Il virus è democratico, hanno detto.

Il virus porta ognuno di noi a fare i conti con l’arma fondamentale di cui tutti dispongono: la responsabilità.

“Il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri…perché la costrizione o la punizione siano giustificate, l’azione da cui si desidera distoglierlo deve essere intesa a causar danno a qualcun altro. Il solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve render conto alla società è quello riguardante gli altri. La costrizione è giustificabile solo per la sicurezza altrui. Rendere chiunque Responsabile del male che fa agli altri è la regola. La mente umana ha una qualità. La fonte di tutto ciò che vi è di rispettabile nell’uomo inteso come essere intellettuale e morale è la possibilità di correggere i propri errori, di rimediarvi con la discussione e l’esperienza. Mantenersi aperti alle critiche riguardanti la sua opinione e la sua condotta”.

Lo scriveva John Stuart Mill nel 1859 nel suo Saggio sulla Libertà.

Considerarci in guerra ci arroga il diritto di crederci superiori o inferiori, inserisce il tarlo crudele di avere il diritto di odiare. Contro.

Sentirci in uno stato di costrizione permanente voluta dall’ alto ci legittima a considerare persino nell’ uguaglianza della situazione catastrofica, differenze sociali e status quo da recriminare.

La tua casa è più grande della mia. La tua noia è più ricca della mia. La tua creatività è più nutrita della mia. La tua strumentazione digitale è più aggiornata della mia. La tua voglia di correre contro la mia pedissequa accettazione delle restrizioni. Perché diciamocela tutta, siamo tutti Osho con il virus degli altri e poi sotto sotto celiamo idee hitleriane quando ci saltano i 5 minuti. La paura potrebbe renderci ciechi.

Sappiamo cosa farne del TEMPO che ora abbiamo a disposizione nel mondo surreale che ci ha fatto visita?

Arya,

perdonami se da quando il monello virus ci ha sbattuto la porta di casa non esistono più regole.

Scusami amore mio se non ho stampato tutti i lavoretti che amorevolmente e giustamente le tue Maestre inviavano nel gruppo WhatsApp della classe. La festa del papà del 2020 non avrà testimonianza di una poesia da te recitata. Ci perdonerà papo tuo.  Per una volta, la lentezza ha conservato l’ossigeno di cui avevamo bisogno tutti. Se il virus ci costringe alla distanza sociale e se il contatto fisico è vietato, possiamo riscoprire la potenza del verbo sentire.

“E’ da distesi che si vede il cielo” così ti porto a vedere le nuvole, dal nostro balcone che mai prima d’ora era stato così calpestato. Quei bizzarri batuffoli di cotone giganteschi che cambiano forma e colore col passaggio del vento e del sole. Inventi neologismi per dare il nome al disegno che vedi nel cielo. Credo che spesso, in questi giorni, la bimba più piccola tra le 2, sia io. Stiamo sperimentando l’ignoto. Navighiamo su una zattera a forma di punto interrogativo, nel mare aperto dei “non so.”

Vivere il tempo senza lancetta.

Al bando l’ansia e il terrore di perderci qualcosa che gli altri stanno vivendo e di cui noi non possiamo goderne. Che poi, dobbiamo per forza fare qualcosa? Tra i decreti ministeriali che “lu compare Giuseppi” di cui ormai conosci ciuffetto e timbro alla perfezione, (chiamandomi da una stanza all’altra -che ora danno Conte-), non c’è l’obbligo di trasformarsi in giullari, youtubers, cantautori, artisti di strada e di cucina, mangiafuoco, Mila e Shiro casalinghi, Carlicracchi e iginiMassari,

mamme Montessoriane vs mamme Rottermeier, papàRonaldi vs papàCamionistamediocolpaninazzoelabirrozza.

Non hai imparato la poesia della festa del papà. Scusami ancora.

Ma ti ricorderò di quando hai iniziato a svegliarti da sola, a infilare ai piedi le pantofole, una volta scesa dal letto. A prendere una salviettina che ti lascio nel comodino, perché –mamma! gli occhi sono pieni di caccoline tutte appiccicose sugli occhi e non vedo la strada del bagno per lavarmi-.

Così, come un cucciolo, hai imparato a gestire i primi gesti quotidiani e a preparare il tuo corpo  con i tuoi ritmi, senza il grillo parlante che sarei io, che ti incita come Maldini in panchina, a fare presto che è tardi. Stai crescendo. E io sto avendo la sorprendente fortuna di essere testimone oculare di questo meraviglioso cambiamento. L’odore. Il tuo odore che cambia così tanto durante una giornata intera. Sai di risveglio. Di dentifricio alla fragola incrostato sulle labbra dopo aver lavato i denti inginocchiata ai piedi del bidet del bagno di papo tuo. Sai di merendine sbriciolate sul divano e di cioccolato sulla maglietta bianca. Sai di pastina al formaggino pronunciata con diecigi come lo dici tu, mangiata a intervalli regolari di ore persino. Sai di profumo che spruzzi sui polsi e poi passi sul collo dopo aver fatto il bagnetto nella vasca, immaginando di essere al mare. Abbiamo iniziato ad abitare dentro, in ogni senso figlia mia.

Aspettare non è perdere tempo. Stiamo prendendo il tempo. Lo stiamo accettando. Accettare di avere capelli con la ricrescita. Unghie rotte bicolore. Baffi da siculo ottocentesco con la coppola in testa. Possiamo persino abitare il nulla. Tu sei portatrice sana di un ritmo personale, di una melodia unica che stai imparando a suonare, in autonomia, senza spreco. Abbiamo la fortuna di sfruttare questo tempo che prendiamo per conoscere o riconoscere quello interiore. C’è chi è tempesta. C’è chi è mare calmo. Senza sensi di colpa. Senza rumore. Senza silenzio. Non dobbiamo riempire contenitori vuoti. Il vizio supremo è la superficialità. E’ da quella che vorrei abituarti a prendere le distanze. In questi giorni di quarantena hai iniziato a fare domande di una maturità sconvolgente, mentre dipingi con il foulard in testa e con gli occhiali da sole, figlia illegittima di Frida. Ci sono parole che valgono più del loro apparente significato. Sotto le lenzuola, mentre ci nascondiamo dal drago, mi viene in mente che nei bambini c’è qualcosa che li lega in modo mistico alla natura. E sei bellezza. Sei poesia. I bambini lo sanno. Lo fanno ogni sera prima di donarsi a Morfeo. Vogliono ripetere la fiaba spaventosa fino a quando conoscono il drago talmente bene da considerarlo amico.

La bellezza è cominciata quando qualcuno ha cominciato a scegliere, ha detto un premio Oscar.

Se non vi innamorate, tutto diventa morto. Così in un tempo sospeso in cui la morte è tangibile, a 4 anni, tu amore mio padroneggi con naturalezza parole come cancro e virus, mascherine e disinfettanti. Si dice che ai bambini vada  detta la verità. Ma noi berremo sempre dalle tazzine di plastica in cui tu verserai un ottimo tè inglese preparato alle 23, quando le tue pile sono scariche solo a metà e noi esponiamo fieri la freschezza degli avvoltoi di Robin Hood che cantano che va tutto bene. Ci ho provato. Ci ho provato a incastrare i mattoncini lego che odio profondamente da quando ho memoria, ma ci provo. Per te. Nonostante i miei tic facciali ad ogni incastro che non so fare e che tu sbigottita richiedi. Tu chiedi tutte le legittime attenzioni e lo fai ininterrottamente h24, persino durante la notte invochi la mia presenza ed io, come un grillo danzante, ti vengo a proteggere e mentre mi osservi, come una sentinella, mi capita a volte che io voglia solo scomparire, sparire, altrove, per qualche secondo, piangere, urlare, danzare, scrivere, restare in silenzio che non è quello fuori per strada. Poi mi riporti sulla terra e mi ricordi quello che penso e che umilmente provo a insegnarti. La bellezza salverà l’umana specie.  Mi ricordi che la vita non deve essere per forza quello che manca e che possiamo smetterla di cercare ciò che non c’è. Vorrei che il verbo “sentire” potesse diventare il tuo preferito. C’è qualcosa di immortale nell ’odore di chi si ama. Forse da questa quarantena non ne usciremo migliori, ma mi auguro però che ci sia più consapevolezza della fortuna che abbiamo. Degli abbracci che stritolano. Della pelle che strapperesti per conservare un pezzetto del volto di chi ami e portarlo in giro con te, racchiuso nello scrigno segreto del cuore. L’amore invoca la fallibilità che è quanto di più carnale e reale ci sia, in un momento surreale. Ti spoglia. Ti scioglie i travestimenti esterni. Abbatte le fortezze. Quando sarai pronta, mi auguro che tu possa dare il tuo primo bacio con gli occhi. Perché sarai di chi alza lo sguardo, di chi riesce a dirti grazie. Sarai di chi si accorge che esistono i tramonti, che a pensarci bene durano solo pochi minuti, ma che sono, giorno dopo giorno, meravigliosamente unici. Sarai di chi disegna il tuo volto e lo dipinge con quel tocco che adesso ci è interdetto. Sarai pronta a donare il tuo essere poesia quando sentirai che la tua anima si accartoccia e sembrerà morire in preda alla mancanza. Quando sentirai, appunto, che c’è solo un luogo in cui il tuo respiro è sospeso, restando senza fiato, nemica di un tempo a cui chiedi di fermarsi, racchiuso nell’astuccio di un abbraccio. Senza fretta, un giorno, quando meno te l’aspetti, troverai l’ultimo pezzo del puzzle, il gheriglio di noce perfetto, la persona con cui sarai casa, ti sentirai casa e sarai a casa; la conchiglia più rara tra le centinaia insabbiate; l’aforisma più originale. Sarai di chi conoscerà il sapore delle tue lacrime, che asciuga con teneri baci sulle ciglia folte e bellissime che hai. Quando troverai verità nella bellezza del tempo che non è mai perso, mai sprecato ma regalato, mentre brilli con quegli occhi grandi che si illuminano al solo pensiero di aver trovato qualcosa che non ha copie. Sarai meravigliosa bufera. Sarai pioggia di luce sotto cui danzerai. Sarai di chi conosce ogni tratto di te eppure si stupisce ogni volta della bellezza che indossi. Di chi ti chiede come stai, più volte al giorno e si aspetta una risposta cruda e persino crudele, perché la quotidianità può essere cattiva con te. Di chi piange con te e per te. C’è qualcosa di sacro nelle lacrime versate con qualcuno che ami, che a sorridere siamo bravi tutti. Sarai di chi si nutre del tuo sorriso e ha sete di verità dai tuoi occhi stregati. Di chi è in grado di lucidare le tue gigantesche ali ma ti afferra con le radici di un ulivo secolare.  E non importa, amore della mamma, se sarà per sempre come nelle favole oppure no.

Avrai scritto la favola più importante della tua vita, perché avrai rischiato ad essere felice; avrai avuto coraggio; avrai lottato; è per M’illumino di immenso che Ungaretti ha fatto storia. Non importa la durata. Ti sarai sentita intera. Incanto e disperazione. Quando l’Amore si sdraia sulla tua schiena, non lo vedi, ma lo senti. E’ quel profumo che riconosceresti tra mille. Quel tocco che sa di magia. Il tempo, sempre lui, si ferma nel preciso istante in cui sussurri, nell’abbraccio più intimo: sei la mia vita e lascerai che quella vita di cui fai parte veda il pezzo più luminoso e a volte accecante e l’oscurità più profonda che ti porti dentro.

Siamo nati per rinascere ogni giorno.

 Allora forse non saremo migliori dopo la quarantena, ma spero che alla consapevolezza segua anche meno indifferenza.

Potremo assomigliare ai gesti che ripetiamo nelle ore di distanza sociale, di socialità interdetta come dicono quelli bravi. L’amore è un sentimento che è pace tra le bombe. Forse inizieremo a parlare con il silenzio dopo che lo avremo ascoltato per giorni. Saremo pronti a scavare tra le macerie di ciò che abbiamo vissuto e capiremo che la nostra unica opportunità è quella di riconoscere la felicità, quella tenera forza che ha la potenza del fuoco, perché in fondo siamo ancora vivi, storti, rotti, travolti e stravolti, meno lucidi, più vuoti o più saturi, ma forse non rinunceremo alle meravigliose sfumature che dipingono l’esistenza. Tutto è possibile. Come è possibile che un virus abbatta le porte delle nostre case, così è possibile che si possa mandarlo via a calci. Forse appenderemo la pesantezza e ci vestiremo di una leggerezza che, come diceva Calvino, non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore. Per rispetto alla morte che non ci ha toccato e alla vita che ci ha scelto, per rispetto di coloro che restano dopo aver perso qualcuno senza neppure salutarlo per l’ultima volta, potremo metterci in discussione. Porci delle domande. Su ciò che ci fa soffocare, perdere il sonno, ingoiare gusti amari. Forse, quando tutto questo sarà finito, non tutti avremo voglia di abbracciare il mondo con impeto. Forse qualcuno vorrà trovare la propria dimensione, in solitudine, quella reale, facendo i conti con un costo psicologico enorme, poiché avremmo pure avuto una agenda in quarantena pregna di videochiamate, incontri virtuali, sedute zen e yoga, lezioni di dizione o di come fare il lievito madre, ma ne usciremo diversi. Non saremo santi, neppure puri e neppure radicalmente migliori. Forse anche meno gentili o più tristi. Non lo so cosa saremo amore mio.

Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro che sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato. Murakami ha ragione da vendere.

Te lo ripeto, io non so nulla della vita, ma una cosa l’ho imparata e me l’ha insegnata quella tipa messicana che imiti mentre dipingi.

Non come chi vince sempre, ma come chi non si arrende mai!

Ma per una volta sarà stato bello persino vincere, tutti insieme, non contro qualcosa ma per qualcuno.

E il mondo sarà davvero cambiato! Perché avrà piovuto luce!

Pioverà luce e ci inzupperemo…

25 Gen

Storia di una Comunità viaggiante, che difende i sogni realizzandoli!

C’è stato un tempo in cui avrei voluto cambiare il mondo. Il tempo in cui ti  brucia un indefinita massa nel cuore e nello stomaco e l’unica via da percorrere è quella dell’attivismo e della partecipazione, “perché se tutti restano indifferenti non è detto che debba farlo anche tu”. 

C’è stato un tempo in cui la bellezza significava anime che si univano per dare un senso o almeno provare a darlo, occhi sconosciuti che dialogano, cuori impazziti che si fondono e menti libere da fuorvianti sovrastrutture che pullulano di idee che a volte realizzano.  Di  quel tempo ho fatto un po’ parte e mi illudo di non aver mai scritto la parola fine, concedendomi il diritto e il dovere di esserci ancora, tra coloro che difendono i sogni.

“Ogni tempo ha il suo fascismo: se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine, ed in cui la sicurezza dei pochi privilegiati riposava sul lavoro forzato e sul silenzio forzato dei molti”. (da Un passato che credevamo non dovesse tornare piùCorriere della sera, 8 maggio 1974; ora in L’asimmetria e la vita, Primo Levi).

Forse ancora non abbiamo capito, forse non avremo mai delle risposte, ma abbiamo il diritto e il dovere di continuare a porci delle domande.

C’è chi non aspetta il 27 gennaio per salire sul carro e sventolare la bandiera dei ricordi, ingiallita e pregna di polvere. C’è chi quella bandiera la lucida ogni giorno, con olio di gomito, sudore, allegria e con tanta voglia di capire il passato, perché è da esso che si parla al presente e si guarda al futuro, in un continuo dialogo, non solo con se stessi.

C’è chi la diversità la considera una risorsa, un incredibile strumento di confronto per migliorarsi e modificarsi nel senso più sano del termine, in quanto la conoscenza e l’informazione non hanno connotazioni geografiche.

C’è una comunità viaggiante che considero patrimonio dell’Italia intera,  una realtà nazionale. Il primo treno della memoria è partito nel gennaio del 2005, con a bordo circa 700 ragazzi leccesi e piemontesi, grazie all’ Associazione Terra del Fuoco, organizzazione non governativa italiana, nata a Torino nel 2001 ma con sedi decentrate sull’ intero territorio nazionale. Così come in un vero e proprio viaggio si percorrono strade, si cambiano direzioni, si prendono decisioni e si fanno scelte più o meno importanti, ogni tappa ha un senso, in un percorso educativo rivolto agli studenti delle scuole secondarie superiori e dell’università, che culmina a Cracovia per visitare gli ex campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau. Quello polacco è unico nella storia per l’uso che il nazismo ne ha fatto, divenendo lo strumento principe di eliminazione razionale e sistematica dei deportati, nella micidiale demolizione dell’uomo contro l’uomo.

In un preciso momento storico in cui i giovani vengono appellati in vari modi, a torto o a ragione, in cui la precarietà e il senso di insicurezza corrodono e avvelenano i pensieri, in cui il giudizio e l’indifferenza la fanno da padroni, c’è chi ha bisogno di spogliare la propria anima e rivestirla con mille indumenti provenienti da culture ed esperienze diverse, per sentirsi meno soli nella lotta delle idee,perché “quando si sogna da soli è solo un sogno. Ma quando si sogna insieme è già l’inizio della realtà” (Tdf).

Anche se non lavoriamo nel fango, se non moriamo per un sì o per un no, se non patiamo la pochezza del cibo, non possiamo permetterci di avere vuoti gli occhi. Questi ragazzi hanno provato a riempirli i propri occhi, affidandosi non solo ai ricordi, alle esperienze e alla competenza di chi li ha “educati” ad essere a loro volta portavoce del progetto, ma anche a vivere uno spazio di condivisione, troppo spesso assente laddove prevalgano individualismi ed egocentrismi del nuovo Millennio.

I bambini piangono spesso.
E’ facile ricordare il loro pianto. Ma gli adulti no. Sono lacrime silenziose, che squarciano il volto già tagliato dal freddo pungente. Ci sono occhi che non osserveranno più il mondo. Pianti che non si udiranno.

Dachau, Mauthausen Auschwitz, Chelmno, Ravensbruck, Fossoli.

Sotto lo stesso cielo, alzo lo sguardo e ricordo.

Scarpette, minuscole scarpe di chi non correrà, non intraprenderà la strana strada della vita. Capelli, ciocche che non saranno mai più scompigliate dal vento, che non conosceranno vanità, la grande bellezza, assaporando la propria immagine riflessa allo specchio.

Le stelle non si possono rubare, dimorano sopra di noi, custodi dei nostri sogni.

Eppure le hanno strappate dal cielo e obbligato a cucirle sulla stoffa.

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Betulle.
Al di là del filo spinato. Non sento alcun odore. Tutto è maledettamente coperto dalla neve così tanto candida da far paura.

Ordine caotico.

Silenzio assordante.

Solitudine nella moltitudine.

Assenza che deve farsi presenza, affinché i “vuoti occhi” possano colmarsi di una storia che è LA storia, per non sentirsi più estranei nella terra natia né ospiti in quella che si sceglie per metter radici.

Ricordo. La sensazione di perdere se stessi, il coraggio per preservare la propria anima, sporca, che si vergogna e si cela di fronte a tutta questa nuda verità di morte, ma financo di vita.

Più una cosa è grande e meno si riesce a vederla. Ma non lì. L’oscurità pervade e non puoi girare la testa per far finta che non ci sia. Tutto passa, persino dopo le tempeste più devastanti torna la quiete. Dentro, piccoli cambiamenti che tormentano, domande che generano rabbia, solida, concreta, come tale deve essere il ricordo, scolpito nel cuore. Esso è eterno, oltre i numeri tatuati.

 Nomi. Nomi di chi non ha più una casa, gli abiti, le persone amate. Di coloro cui è stata lacerata la dignità, avendo perso tutto, giacendo sul fondo.

E allora, quanti ancora, oggi, devono partire verso il niente; quanti ancora, oggi, vengono fatti schiavi e marciano “scalzi” su strade di discriminazione e terrore. Quanti ancora,oggi, sono obbligati alla fatica muta, alla gioia sommessa, al dolore che toglie il fiato e a una morte anonima?
Attuare il ricordo, perché le cose possano andare al giusto posto.
La storia siamo noie come canta Francesco De Gregori:

“la storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano, la storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano”.

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Raccontare del male, spingersi oltre la naturale autoconvinzione che tutto vada bene, è un atto coraggioso e crudele. Denuda l’uomo, lavando l’ipocrisia e l’egoistico senso di beatitudine nel guardare il più bel quadro della vita, poiché troppe sono le sofferenze quotidiane.
Un impetuoso senso di vergogna e turbamento mi accarezzano la mano, da quando ho sceso le scale del pullman, dando lo sguardo alla “banalità del male”, da quando la nostra anima e i nostri corpi infreddoliti sono stati avvolti e travolti dal cielo color fumo di Auschwitz e Birkenau.
Poi, arrivano i sensi di colpa, forse stupidi, forse legittimi.

Morsi di pudore lasciano i segni violacei sulla pelle. Non c’è pace, per nessuno. Né per i morti, né per coloro che camminano sulle loro ceneri, perché ingiusta la fortuna, il caso, la sorte di essere nati in un luogo o in un altro, in epoche lontane o vicine, eredi di religioni o miti differenti. Silenzio. C’è il frastuono delle domande interiori che generano terrore e rabbia. Nuda la verità davanti a noi. La storia si è fatta verbo e carne e non c’è modo di schivarla, è uno schiaffo in pieno viso, un calcio potente che ti spinge più in là, per osservarla più da vicino.

Silenzio, ancora il tumulto del silenzio. Blocco dopo blocco, latrina dopo latrina, le lacrime si cristallizzano sul viso gelido. Sguardi attenti e inconsolabili si incrociano. Sono gli occhi la nostra bocca, la loro luce il mezzo più idoneo a formulare parole di commemorazione. Non esistono più gerarchie, ruoli, età, distinzione di sesso. Tutti lì, in quell’ immenso luogo di memoria, devastazione e morte, siamo uguali, nella più bella forma di eguaglianza che esista al mondo. Perché se qualcuno avrà dato il nome a quella parola, eguaglianza, avrà pensato sicuramente a questo.

Tutti sostanzialmente uguali nel provare delle emozioni, visibili e tangibili, tutti estremamente uguali nel vivere un’esperienza, di quelle che ti squarciano. Il nostro viaggio non è stato verso il nulla, perché lì abbiamo trovato il tutto, tutto il male del mondo, un viaggio verso il fondo.

Tutti scoprono, più o meno nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta:che tale è anche una felicità perfetta. Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo, la sete, che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una disperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo. Non già la volontà di vivere, né una cosciente rassegnazione: chè pochi sono gli uomini capaci di questo, e noi non eravamo che un comune campione di umanità. (Primo Levi)

Ogni suono che sia umano è spento. Troppo “umano” sarebbe stato viaggiare in primavera o in estate. Basta poco per sentirsi infreddoliti nel corpo e nell’ animo. E’ il freddo il primo dei problemi. Quel freddo che taglia, ti soffoca, cancella ogni forma di pensiero. Eppure si aveva addosso l’intero negozio sportivo più cool del momento.

Il tempo passa goccia a goccia.
Le parole sono state inventate da noi uomini e in quanto frutto dell’umana mente godono degli stessi nostri limiti. Come potremmo, senza sfiorare l’eterna retorica, riuscire mai a esprimere con dignità l’esemplare devastazione dell’uomo?


Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti,tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine Campo di annientamento e sarà chiaro cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo. (Primo Levi)


E ritorna il senso di colpa, per quella fame cronica mai conosciuta, per quelle piaghe mai avute, per quel ventre gonfio e il viso tumido mai visto. E anche i più impavidi, persino coloro che avevano già immaginato come potesse essere lì,  con estrema compostezza e con profondo rispetto hanno accarezzato la mano di chi popolava l’inferno.


Se dall’interno dei Lager un messaggio avesse potuto trapelare agli uomini liberi, sarebbe stato questo: fate di non subire nelle vostre case ciò che a noi viene inflitto qui…Noi abbiamo viaggiato fin nei vagoni piombati; noi abbiamo visto partire verso il niente le nostre donne e i nostri bambini; noi fatti schiavi abbiamo marciato cento volte avanti e indietro alla fatica muta, spenti nell’anima prima che dalla morta anonima. Noi non torneremo. Nessuno deve uscire di qui, che potrebbe portare al mondo, insieme col segno impresso nella carne, la mala novella di quanto, ad Auschwitz, è bastato all’uomo di fare all’ uomo”.

 Ogni anno, in quasi 800 siamo tornati e ritorneremo.

Perché quel messaggio mai trapelato realmente è messo in opera, ogni anno.
Per non diventare bestie. Per vivere e non sopravvivere. Per raccontare. Per testimoniare. Perché non ci siano più schiavi, perché vengano attuati i diritti che si chiamano umani.

Dlin dlon:

…consigli per gli acquisti intelligenti:

Molto spesso si legge di film ispirati completamente o in parte a libri divenuti Best Seller o inizialmente poco conosciuti, che raggiungono la vetta del successo in seguito all’uscita del film.
C’è chi a Hollywood ci ha visto lungo. Qualcuno di nome Brad e di cognome Pitt ha pensato bene di acquistare i diritti di un libro, scritto da Edwin Black, dal titolo IBM e l’Olocausto: I rapporti fra il Terzo Reich e una grande azienda americana
L’attore ha espresso il forte desiderio di produrre, con la sua Plan B, il film della storia drammatica, un intreccio tra tecnologia e nazismo, statistica e ideologia. Scartata l’ipotesi di farne una serie televisiva, Pitt è deciso a portare la storia sul grande schermo, cercando qualcuno disposto a distribuirlo. Invece di parafrasare quanto scritto dall’autore, sembra più opportuno riportare alcune parti dell’introduzione, per riuscire a capire, riflettere, criticare o semplicemente venire a conoscenza della millesima sfaccettatura del periodo più buio e oscuro della nostra Storia.


Leggere questo libro sarà molto inquietante. E’ stato molto inquietante anche scriverlo. Il volume infatti spiega come, in modo diretto o attraverso le sue filiali, l’IBM abbia partecipato consapevolmente all’Olocausto e abbia consentito il funzionamento della macchina bellica nazista che uccise milioni di persone in tutta l’Europa. L’Umanità non si accorse nemmeno della silenziosa comparsa del concetto di informazioni altamente organizzate, concetto che poi sarebbe diventato un mezzo di controllo sociale, un’arma da guerra e uno strumento per la distruzione etnica. L’avvenimento che diede il via all’ intero processo si verificò nel giorno più funesto del secolo scorso, il 30 gennaio 1933, quando Adolf Hitler salì al potere. […]
Gli scienziati e gli ingegneri svilivano la loro nobile vocazione per progettare gli strumenti e trovare le giustificazioni della distruzione. Gli esperti di statistica utilizzavano infine la loro disciplina, poco conosciuta ma potente, per identificare le vittime, calcolare e razionalizzare i vantaggi dello sterminio, organizzare le persecuzioni e persino valutare l’efficienza del genocidio. E’ a questo punto che entrano in scena l’IBM e le sue filiali estere. Egocentrica e abbagliata dal suo stesso vortice di possibilità tecniche, l’IBM agiva obbedendo a un’immorale filosofia aziendale: se possiamo farlo, dobbiamo farlo. […] Quando Hitler salì al potere, i nazisti si prefissero l’obiettivo di identificare e distruggere i seicentomila membri della comunità ebraica tedesca…solo dopo essere stati identificati, gli ebrei avrebbero potuto diventare il bersaglio della confisca dei beni, della ghettizzazione, della deportazione e infine dello sterminio. Ma nel 1933 i computer non esistevano ancora. Tuttavia, esisteva un’altra invenzione:la scheda perforata dell’IBMe il sistema per la selezione delle schede, una sorta di precursore del computer. La filiale tedesca dell’IBM, progettò, creò e fornì, grazie al proprio personale e alle proprie apparecchiature, l’assistenza tecnologica di cui il Terzo Reich di Hitler aveva bisogno per raggiungere un obiettivo mai realizzato in precedenza: l’automazione della distruzione di massa. Oltre duemila apparecchi multifunzionali vennero distribuiti in Germania, e altre migliaia raggiunsero i Paesi europei sotto il dominio tedesco. In ognuno dei principali campi di concentramento esisteva un centro per la selezione delle schede. Le persone venivano trasferite da un posto all’altro e costretto a lavorare fino allo sfinimento, e i loro resti venivano catalogati mediante fredde operazioni meccaniche. […]
Le schede perforate potevano essere progettate, stampate e vendute da un’unica azienda: l’IBM.
Le macchine non venivano vendute, bensì noleggiate e venivano regolarmente sottoposte a migliorie e interventi di manutenzione da parte di un’unica azienda: l’IBM. Le filiali addestravano gli ufficiali nazisti e i loro rappresentanti in tutta Europa, creavano succursali e stringevano accordi commerciali in tutti i paesi occupati sfruttando l’inesauribile schiera di dipendenti dell’ IBM e gestendo gli stabilimenti in modo che producessero ben un miliardo e ben cinquecento milioni di schede perforate l’anno nella sola Germania.
Come riuscirono i nazisti a procurarsi le liste degli ebrei?
I censimenti e altre sofisticate tecnologie di conteggio e registrazione ideate dall’IBM in Germania hanno permesso ciò. L’IBM era stata fondata nel 1896 da Herman Hollerith, un inventore tedesco che aveva voluto creare una società tabulazioni per censimenti. Quando la filiale tedesca strinse l’alleanza ideologica e tecnologica con la Germania nazista, ai censimenti e alle registrazioni fu però affidata una nuova missione. L’IBM Germania inventò il censimento razziale, che rilevava anche la discendenza. Era questo il sogno dei nazisti: non solo contare gli ebrei ma anche identificarli.
Tuttavia, se pensiamo che senza l’IBM , sostiene l’autore, l’Olocausto non avrebbe avuto luogo, ci sbagliamo. L’Olocausto sarebbe andato avanti grazie ai proiettili, alle marce della morte, ai massacri condotti con carta e penna.
Grazie a questa lettura potremo analizzare gli straordinari risultati che Hitler ottenne quando decise di sterminare milioni di persone in breve tempo, comprendendo altresì il ruolo cruciale dell’automazione e della tecnologia.

Edwin Black ha raccolto oltre 20mila pagine di documentazione provenienti da cinquanta archivi, collezioni bibliotecarie di manoscritti , registri di musei e altre fonti. Ha avuto accesso a migliaia di documenti segreti del dipartimento di Stato, dell’Ufficio dei servizi strategici e altri documenti governativi un tempo riservati. E’stato creato un raccoglitore per ciascun mese dagli anni 1933 al 1950. Nessuno di questi ventimila documenti ha fornito informazioni univoche. Nessuno di essi era in grado di rivelare la vera storia. Anzi, molti erano fuorvianti se utilizzati come testimonianze autonome. Acquistavano significato solo se accostati ad altri documenti, spesso provenienti da altre fonti. “Solo riportando alla luce ed esaminando i fatti realmente accaduti, il mondo della tecnologia potrà finalmente adottare il motto che ormai abbiamo sentito pronunciare tante volte: Mai più”.
Successivamente all’uscita del libro di Black, una organizzazione del popolo rom ha denunciato l’IBM per aver venduto macchine punzonatrici e altre strumentazioni utili, facilitando le stesse operazioni naziste di distruzione. Una Corte d’appello di Ginevra ha stabilito che l’azienda è processabile in Svizzera perché nel 1936 aprì una filiale, dichiarando inoltre che non possa essere del tutto esclusa la sua complicità attraverso assistenza materiale o intellettuale agli atti criminali dei nazisti. L’IBM ha richiesto un intervento della Corte Suprema Svizzera.
Il ricordo è un macigno, gelido vento che taglia il viso. La strada della conoscenza conduce al ricordo. Sapere, questo il verbo più invocato dai superstiti della brutalità umana. Anche nei sentieri più contorti e mai percorsi.
Buona lettura!

05 Ott

Capitolo 34. L’età ibrida.

“Nonna, io non voglio che la mia mamma sia triste”.

La più profonda, impulsiva, pura e allo stesso tempo egoistica dichiarazione d’amore che mi potessero fare a pochi passi dai 34 anni, è arrivata da mia figlia, una mattina di agosto, quando il sole giocava a deformare le ombre sull’acqua verde-cobalto-tiffany di Porto Cesareo, mentre l’estate era una vecchietta arzilla che gioca a bridge e beve Martini.

Serve una grande quantità di immaginazione per capire la realtà e Arya, la mostriciattola dai capelli miele, una mattina di agosto ha compreso bene che anche le mamme possono essere strani esseri dagli occhi che assomigliano a pozzanghere come quelle di Peppa Pig.

In questa mia età ibrida, chediciamocelatutta, i 34 sono come i 15, i 26, un po’ carne e un po’ pesce, un po’ ristorante-pizzeria dove ti trovi a mangiare senza infamia e senza lode, un po’ come quando in autunno cadono le foglie, le caldarroste ti fissano da lontano ma tu hai ancora i teli mare in borsa, in questi 34 anni credo di non aver capito una beata ceppazza di ceppa riguardo a quel vortice libidinoso che chiamiamo vita.

Ma di una cosa credo di essere certa: la tristezza è necessaria così come è imprescindibile che i nostri figli possano leggerla sul volto di noi genitori, senza vergogna e senza turbamenti.

Si possono e si devono cercare vie d’uscita al dolore e per fare questo, occorre attraversarlo, nominarlo, scrutarlo, guardarlo da vicino e da dentro, raccontarlo tutto quanto, fino all’ultima parola, fino all’ultima goccia.  I bimbi sono persone, di statura estremamente bassa, ma persone. Ti costringono a dare un nome a quello che vorresti non dire entrando nel regno proibito del tuo Io, generando quel tumulto di sentimenti che invano provi a domare. 

Per lunghi anni sono rimasta in compagnia dell’idea di ciò che poteva non esserci più e di quello che non c’è, con l’illusione che bastassero ordine e dovere e binari già segnati, tanto c’è sempre tempo per vivere di ciò che bramiamo, ostinata a cercare un senso e un tempo che odia l’improvvisazione, il tempo che è speso a tenere stretto l’alone, l’ombra, il profumo.

“Le nostre paure sono draghi a guardia dei nostri più profondi tesori”.  L’ho letto una volta nelle mie bracciate nel mare aperto degli aforismi. Così tutti noi dovremmo avere la capacità insita di trasformare in forza la nostra debolezza. Mi sento un ramo che si immaginava forte ma che ha ceduto quando meno se l’aspettava.  Ho atteso troppo ciò che non c’è e ciò che manca, dimenticandomi di provare ad essere ciò che sento nel tempo in cui vivo.  Ora.  A 34 anni è giunto il momento di capire che quando uno cade fa meno fatica se  tende una mano e afferra stretta quella salvifica. Che nessuno si salva da solo già lo sappiamo, ma scegliere da chi e da cosa e con chi farlo è un capitolo da scrivere.  A volte mi chiedo perché dovrei avere paura smisurata della morte visto che non c’è più morte dopo la morte e che non potrò mai sapere se ci sia qualcosa di più pauroso assai di questo e alla domanda rispondo che dovrei fare amicizia con questo concetto, come quando Arya scioglie le briglie della timidezza misto studio clinico della personalità altrui e prende per mano un bimbo incontrato due minuti prima, dichiarandogli amicizia eterna.  

Non voglio che la mamma sia triste. Da quando abbiamo incasellato e stereotipato la tristezza, rifiutando bruscamente persino di nominarla come fosse sinonimo di morte interiore? I bimbi non conoscono i nomi delle loro emozioni e quando sono piccoli piangono a prescindere, nel bene e nel male loro piangono. Se ci pensiamo, piangiamo da quando veniamo al mondo, la prima espressione verbale, il primo sentimento, la prima forma di liberazione e libertà è avvenuta tramite ciò che invece adesso tendiamo a celare, dissacrare, cancellare.

La mamma, cara Cosetta, mostriciattola dai capelli miele, vorrebbe tanto lottare contro i kakamora dell’anima sua, i piccoli pirati guerrieri di noci di cocco, dalle facce spaventosamente buffe. Muti, comunicano battendosi il petto a ritmo. Tutte le volte che vediamo Oceania/Moana, tutte le trilionesime di volte, resto ammaliata dal coraggio puro e autentico di Vaiana, dalla prontezza che ha avuto nel partire in compagnia di un pollo per affrontare l’Oceano e trovare Maui, il semidio.

 Ci vuole coraggio ad avere coraggio. Ci vuole coraggio a guardare in faccia i kakamora dell’anima mia per accorgersi che il vero vulcano esploso sia io.  Una bomba di lava. Magma. Colate dagli effetti devastanti.  Esplosiva ed effusiva insieme.

L’età ibrida si porta dietro la consapevolezza che la felicità sia estremamente sopravvalutata, assolutizzata, estremizzata, santificata a tal punto che è quasi sempre impossibile stringerla forte.

Falsifichiamo la realtà modellandola come la plastilina, copiando la forma di disegni già abbozzati da altri.

La felicità. Se non la provi, se non la ricerchi, se non la trovi, non ha senso vivere. È questo ciò che ci insegnano, ci propinano, ci costringono a sospettare.

A 34 anni voglio sottovalutare quella parola accentata. Voglio valutare altri tipi di sentimenti , ponderarli, invitarli a cena e chiacchierare con loro.

A 34 anni voglio inventare il sentimento della LUMINOSITA’. Tutti dovremmo essere pervasi dal fascio di luce luminoso in un momento della quotidianità e sentirci immensamente luminosi.

Mi illumino di immenso. Sublime forma di amore che ci è stata donata, se solo riuscissimo a catturare, ricevere, diffondere e utilizzare la luce delle cose animate e inanimate.

Una torcia fiammeggiante nel cammino oscuro dell’anima. L’età ibrida mi ha donato la capacità di imbarazzarmi davanti alla mia stessa cattiveria, di vergognarmi con estremo pudore del mio egoismo, di riflettermi allo specchio deformante della bruttezza dell’anima mia, con gli occhi neri di rabbia e silenzi assordanti che immobilizzano.

Questa età né carne né pesce mi ha regalato la consapevolezza che dove c’è luce c’è indissolubilmente anche ombra. A 34 anni sogno di sentirmi un libro di Arya dell’età della lallazione. Pochissime parole ma piena di colori. Non ho ancora capito come usare tutte le tonalità. Da tempo ho acquistato l’astuccio triplo maxi in offerta, quello più assortito, eppure la maggior parte dei colori sono rimasti intrappolati nell’elastico.

Tutto è filato più o meno dritto, fino a quando ho desiderato di non essere più una farfalla travestita da baco ma un baco vero. Da qualche parte, nel mio corpo covavo quel tipo di stati d’animo che ti consumano piano piano, internamente, come un morbo di cui non puoi informare nessuno perché altrimenti crolla tutto ma quell’abbozzo di mostro è sottopelle, come il “demo gorgone” di Stranger things, perché sì, di cose strane si tratta. La normalità non mi piace. La stranezza è il mio humus famigliare, mentre riconquistiamo il terreno che ci è stato espropriato, con ardente necessità di sopravvivenza, resistenza e la voglia matta di rimanere umani in situazioni difficili, persino quando il cuore diventava stagno, quando la solitudine causata dall’oscurità delle cose perdute, delle cose ricevute e di quelle abbandonate ti fanno precipitare nel tunnel dell’idiozia. Quella stranezza mi ha salvata, ha messo il corsivo sulla vita che è più forte di tutto. Sempre. Nella nostra carne abbiamo un sacrosanto compito: vivere.

Mi è stato insegnato che la purezza è negli occhi di chi guarda, come la stranezza a dirla tutta.

Mi è stato insegnato a non scusarmi sempre, ma a provare a dire grazie e sentirmi meno in colpa se ricevo molto più di quello che dono. Non voglio più accontentarmi di essere una pianta grassa, di crescere senza dare disturbo a coloro che amo, con un goccio d’acqua al ricordo e la luce naturale.

Diceva un foglio bianco come la neve: ‘Sono stato creato puro, e voglio rimanere così per sempre. Preferirei essere bruciato e finire in cenere che essere preda delle tenebre e venir toccato da ciò che è impuro.’ Una boccetta di inchiostro sentì ciò che il foglio diceva, e rise nel suo cuore scuro, ma non osò mai avvicinarsi. Sentirono le matite multicolori, ma anch’esse non gli si accostarono mai. E il foglio bianco come la neve rimase puro e casto per sempre – puro e casto – ma vuoto.

(Khalil Gibran) 

A 34 anni dico no al colesterolo, agli acidi ialuronici e alla trappola della purezza.

Voglio strappare quel foglio bianco come la neve rimasto puro per sempre e soprattutto vuoto.

Voglio essere fotografia a colori. Tutti i colori che esistono nel triplo maxi astuccio assortito. Tutti quanti. E’ in questa vita che siamo umani. E’ in questa vita che ho bisogno di sentire, urlare, restare in silenzio, piangere, ridere, dare, ricevere troppo senza imbarazzanti paturnie psicosomatiche, perdermi, trovarmi, essere trovata, essere ritrovata, cercata, voluta, desiderata e desiderare, amare, fare l’amore fino a quando le lancette diventano liquide, il tempo si scioglie, il mondo fuori non esiste, le stagioni si alternano e io leggera, stretta e protetta in un abbraccio che sa di infinito, nella più carnale essenza dell’essere umano, appunto.

Luminosità. Ad Arya farò inserire il grassetto a questo concetto. A sorprendersi per uno spicchio di luna dipinta dalla realtà nel cielo nero della notte; a commuoversi di fronte ad una palla infuocata che lentamente si immerge nel blu di acque cristalline; di nutrirsi di sorrisi condivisi, quelli che disegnano rughe sul volto, serrano gli occhi perché la luce che vi dimora quando si ride col cuore è troppo pura per il mondo esterno e va tutelata con l’anima e il battito del cuore. Gli occhi nascondono tutto e proteggono ogni cosa. Si illuminano quando si accorgono di essere testimoni della perfezione che la natura ha creato per noi, in una giornata di sole inaspettato, quando il silenzio è solo per orecchi pigri, ma tutto intorno è vivo e finalmente lo sei anche tu, vivo come lo scoglio che si asciuga a metà, il turista che si sorprende della rara bellezza che gli si apre dinanzi, come un sipario sul palcoscenico della più geniale opera d’autore, mentre il mare si conferma il tuo migliore amico e ti porge un saluto, chiamandoti a sé, anche se l’acqua è fredda e ci sei solo tu a nuotare, protagonista della storia più bizzarra che potessi scrivere. Luminoso è il tempo in cui ti imbatti in un paguro dalla casa maestosa e ti immagini tu stessa paguro.

Breve pausa – momento Alberto Angela-

Lo sapete che questi crostacei vivono portandosi dietro la propria conchiglia e quando crescono o incontrano nel proprio cammino una casa piùmiglioreassai, abbandonano la vecchia e si rifugiano in quella nuova, soprattutto nel momento di maggior pericolo? Io l’ho scoperto un giorno in cui ho abbandonato le mie armature e ho riso e pianto nello stesso istante, un giorno in cui sono stata musica, canzoni, testi, parole, cappello, cielo, azzurro, verde, blu, rosso sangue, un giorno in cui ho cercato di comprendere che i nostri figli non ci appartengono e la loro vita va attraversata come una strada con due marciapiedi vicini vicini ma con una spessa fessura.

A 34 anni continuo a pensare che Arya sia il libro più antico che potessi mai trovare, nel luogo più sacro e di estrema rarità. Intanto io sono labirinto, intricato ma colmo di peonie e tulipani, quando credi di essere alla fine ti ritrovi all’inizio della ricerca, con lo stesso bisogno platonico, con le vecchie e le nuove fragilità ma tanta musica e luce, famelica voglia di accartocciare gli occhi e trasformare la bocca in uno spicchio di limone.

Spesso l’uscita, la mia uscita è l’entrata in una sala di danza, il mio mondo perfetto, dove posso cadere, fallire, provare e riprovare e ancora fallire, esagerare, drammatizzare e sdrammatizzare, portare agli estremi corpo e anima mia, sentire la terra, bruciare e volare insieme, improvvisare e attenersi alla lettera agli esercizi.  Quando danzo non sono più una macchina, nessuna maschera, nessun senso di colpa, nessun desiderio di protezione, nessuna felicità falsata dalla felicità altrui, dimentico il mio nome e mi illumino senza che questo implichi sofferenza per nessuno, ma luce solo per me. Quando danzo il labirinto diventa un giardino segreto in cui dimorano le specie più delicate e originali. Si possono scombinare i piani, mettere accenti, farsi male, tatuarsi le note sui piedi e renderle animate con la magia di un passo, uguale per tutti, ma straordinariamente diverso per lo stile e l’intensità. Speciale.

Mamma, vorrei che tu facessi la festa dei gonfiabili per il tuo compleanno.

Arya ma la mamma è grande per questo tipo di feste, lo sai?

No, non lo sei, perché tutti possono divertirsi e salire sui gonfiabili, grandi e piccoli e io voglio che la tua festa sia bella perché tu sei bellissima.

Hai ragione, sai? Come sempre.

Voglio salire sul gonfiabile più alto e colorato che ci sia, chiudere gli occhi, salvare un pezzo di cuore, allontanare le paure e cadere giù, senza fretta, sentirmi viva ad ogni pezzo di pelle che scivola e odora di luce.

25 Giu

“Il giorno più bello? Oggi. L’ostacolo più grande? La paura. La cosa più facile? Sbagliarsi. L’errore più grande? Rinunciare.”

“Si sa che i genitori di solito tendono ad assecondare le richieste dei propri piccoli, nei limiti del possibile, però si distinguono in 2 categorie: quelli che farebbero qualsiasi cosa purchè il figlio diventi QUALCUNO e quelli che sminuiscono le sue fantasie perchè con l’arte non si porta il pane a casa. La categoria di quelli normali, che ti accettano per quello che sei, io non l’ho ancora incontrata”.

Lo ha scritto Maria Francesca Garritano, etoile della Scala, dopo essere stata allieva dell’Accademia di danza più prestigiosa in Italia.

Quando ho scoperto di essere incinta di una mostriciattola col nastro rosa, si è spacchettato dinanzi a me un vaso di Pandora sui luoghi comuni universalmente riconosciuti validi nella nostra Italica patria.

Oltrepassata con sospiro la fase della “stregoneria alla Vanna Marchi dei poveri” sulla lunghezza e rotondità della panza, con cui si determina il sesso del nascituro, il nucleo, il quid, il nodo cruciale è diventato quello di far indossare l’abito professionale dei nostri feti sulla base di come se la godono nella PLACENTA SPA & WELLNESS.

E così, si schiera la tifoseria della squadra bianca e quella della squadra blu, ritrovandoci (nel luogo più comune e universalmente riconosciuto come tale e reale) a contrattare due opzioni:

  • Musica di Super Quark in sottofondo, grazie- Aria sulla quarta corda-

È quando testicolo e ovaio si incontrano, dopo essersi inviati note vocali della durata di anni, che lo spermatozoo più sveglio si trasforma in ciò che il pubblico votante desidera.

Se lo spermatozoo in questione raggiunge “in fallo” il gamete femminile, toccandosi là dove il sole non brilla, puntando gli occhi al cielo e mostrando il tatuaggio di Diego,

stu piccinnu, calciatore lu facimu”.

Se invece quel simpatico girino arriva alla meta con un grand jetè, inchinandosi davanti a cotanta bellezza, “quista ballerina ede”

Torniamo semiseri.

Siamo davvero arrivati a classificare, a distribuire le nostre etichette in omaggio e visioni della vita in due macromondi in cui, se nasci pisello e per puro e fortuito caso ti capita di tirare un calcio, la tua unica ragione di vita sarà quella di correre dietro ad una palla con annessa bionda da amare, mentre se nasci farfalla e muovi la testolina con la fontanella ancora aperta, azzeccando il ritmo di Alvaro Soler, potrai fare i provini per Amici duemilacredici, perché è evidente che senti il ritmo dentro e sei portata???

Da quando abbiamo annichilito, invalidato il passaporto verso mete sconosciute ai più e meno modaiole, dissolto lo sguardo verso l’arcobaleno, preferendo puntare tutto sul bianco o sul nero? È inverosimile credere nella fattibilità di crescere bimbi pisello e bimbe farfalla che godano del più ampio spettro di opportunità di emozionarsi durante la loro speciale vita e ardere di passioni che scaturiscano dall’arte e dallo sport e conoscenze incredibili che l’umana specie , coadiuvata dalla natura e da secoli di evoluzione, (fino ad ora) ci hanno lasciato in eredità?

Quale diritto abbiamo noi genitori di rasare il giardino delle sperimentazioni, proponendo strade già calpestate, inducendoli a provare emozioni falsate e falsificate da una vita già vissuta o non vissuta da mamma e papà?

Quando ho saputo che Arya sarebbe stata quella bambina tante volte sognata nelle poche ore rem tra pipì e cambi di posizione di panza, con i capelli biondi e ondulati e occhi grandi da perdere le bussole, la voce di Conte (l’allenatore) tuonava negli orecchi: è agggghhhhiacccianteeee.

Il cuore si è tuffato dal più alto scoglio in una scatola di latta di sardine puzzolenti, stritolato in un abbraccio senza fiato, come quando l’onda dello ionio in giugno ti schiaffeggia la pancia e tu, dopo il breve ma intenso sussulto, puoi godere immensamente della freschezza del tuo mare.  Una femmina. Perdincibaccoseccoebrillo è una femmina.

E via il coro dell’Antoniano, il santo rosario di Papa Francesco sotto quaresima, l’Infinito di Leopardi recitato per il suo anniversario: la domanda delle domande.

Sarà una ballerina proprio come la mamma, no?

Disagio. Tanto disagio. Ho sempre detestato questa domanda e ho sempre avuto profondo imbarazzo nel fornire risposte. Fuggivo e fuggo ancora dall’idea che un essere umano possa essere la copia carbone del precedente in ordine cronologico e genealogico e non per specialità ma per identità.

Così ho iniziato a fare mia la mitica riflessione di Rita Levi:

l’uomo senza incrinature, sarebbe una mostruosità.

“vorresti saper fare una cosa, non importa quale, eccezionalmente bene…tu pensi che eccellere in qualsiasi attività, debba dare un senso di grande sicurezza e probabilmente anche una grande gioia. Io non sono d’accordo con te e ritengo che eccellere in un’attività qualunque non serva che a stimolare la vanità e a fare da paraocchi. La sicurezza che ne deriva è schermo all’intima debolezza e la polarizzazione a coltivare quella particolare attitudine è a danno e non a vantaggio della personalità. Più avanzo negli anni e più sottovaluto le qualità che portano al successo e alla supremazia. Le mie simpatie vanno a quelli dotati di una profonda e acuta sensibilità, a quelli che sanno dimenticarsi completamente nella contemplazione dell’universo e o nella dedizione degli altri e a quelli non senza incrinature ma che fanno errori e sono vulnerabili. Aperti e Recettivi. 

Soltanto gli insetti non schiudono sino a quando non sono perfetti e da quel momento non cambiano nè pelo nè una cellula. Noi vertebrati o meglio primati, meno perfetti e meno predeterminati, continuiamo a crescere, bene o male, chi più chi meno. E il processo di crescita è più interessante dello sviluppo perfetto”.

Ho sempre desiderato che mia figlia fosse aperta e recettiva, meno perfetta e meno predeterminata.

Quando me l’hanno portata per la prima volta in braccio per iniziare a darle il succo della vita, presentandoci l’una all’altra, con gli occhi giganteschi che catturavano il mondo, ha iniziato a prendere ciò che voleva con una forza e un impeto così potenti, da evidenziarmi il fatto che fosse Arya, la bimba che non ha copie e non vuole averne.  

Un pomeriggio, di quando ancora era alta meno di un comodino giapponese, di quelli di stitichezza assoluta, di quelli di brividi e sudori freddi, quando la mia mano tiene forte la sua e le ripeto che ce la può fare, lei mi ha guardata e con una fermezza da trentenne mi ha reso esplicito un suo desiderio che io ho sempre fatto finta di non sapere:

“Mamma, io voglio ballare. Voglio venire a scuola di danza e mettere le punte, ti prego.”

La danza è di tutti, ma forse non per tutti e quando affermo questo non sto facendo un ragionamento razzista o elitario.

La danza è arte e quindi come tale è universalmente riconoscibile e fruibile, come la Gioconda.

La danza è per le bimbe con le gambe con le pieghette da mordere, dal movimento molto più leggiadro di quelle a spaghetto ma privo di condimento.

La danza è per i bimbi che ancora, nel 2020, si sottomettono al volere dei luoghi comuni e dello sguardo schifato di padri che evidenziano una concezione retrograda della vita, da madri che nulla farebbero senza il consenso dei loro mariti, dalla società intera che marchia il bimbo pisello, bullizzandolo e beffeggiandolo se solo ipotizza di entrare in una sala con specchi e parquet.

Lo stereotipo del ballerino gay è ancora ben incastrato nella buca di menti anche “acculturate”.

E così milioni di bimbi pisello con forti inclinazioni alla danza, senza filtri e senza sovrastrutture tipiche del mondo adulto, vengono schiacciati dalla pressa del mondo moderno, inducendoli a credere di non sentire quello che sentono e di non volere quello che vogliono: scoprire il proprio essere attraverso movimenti che naturalmente vengono creati da parti del corpo, a volte lasciandosi trasportare dalla musica, altre volte ancora dal suono che la natura ci fornisce come dono più prezioso.

La danza è per coloro che sentono la propria risata attraverso i piedi, non importa dove, è un bisogno che va placato: un camerino di Zara, mentre la mamma prova i pantaloni in saldo; il corridoio di una Chiesa mentre si celebra un matrimonio; davanti allo specchio in un grande supermercato mentre si fa la spesa settimanale; per strada, durante una passeggiata, in pizzeria, in lavanderia, ovunque resti visibile l’anima, potente e infuocata. È lì che si gode di pura estasi incontrollata e incontrollabile ed è lì che possiamo ricordare che non ci sono barriere, né filtri, né scalata sociale, né carriere, né gay, etero, bicolor, coloriunitiperbenetton, arcobaleni, nulla di tutto quello che le costruzioni mentali varie e avariate ci hanno imposto di credere, ma solo la bellezza di sentire la propria anima, mentre si denuda, per vedere l’assoluto.

La sala azzera le differenze sociali. Quando la mano si posa leggera e nello stesso istante forte, accarezzando la sbarra, fasci di luce illuminano ciò che si è in quel momento e non conta se i piedi calzano le migliori marche di scarpette da punta o se le dita escono dalla tela logora e in attesa di essere cestinate appena sarà possibile l’ennesimo acquisto. Davanti allo specchio, scrutiamo i nostri limiti, li odiamo, rabbrividiamo davanti ad una nostra imperfetta esecuzione, ma poi, una volta accettati, quei limiti li superiamo, perché nulla è impossibile.

È nella crisi, nella stanchezza più acuta, quando le braccia non reggono più il peso, le gambe tremano e tu le scuoti, le schiaffeggi sperando si riprendano, quando i piedi fanno fatica a flettere e stendere, è in questo momento che il cervello si palesa fortissimo, è lui che governa il corpo, mentre il cuore non molla mai la presa.

La danza è per chi vuole spingersi oltre.

È per chi ha il cuore in fiamme e vuole accendersi e scaldare attraverso le emozioni che vengono fuori con un movimento e non una esecuzione sterile.

Per chi crede nella magia, quella che ti raccontano quando entri in sala a 3 anni, la polvere magica sprigionata dal tulle del tutù, per chi la conserva sempre quella fanciullesca sensazione di meraviglioso stupore nel credersi magiche e speciali, senza presunzione.

Essere adulte e bambine nello stesso tempo. Riconoscere la stanchezza, la resistenza e la resilienza.

La danza è per chi accetta come valore assoluto l’educazione, profonda e limpida.

Per chi crede nel potere dell’insegnamento e del Maestro che sceglie di seguire. Per chi ha sempre presente la meta da raggiungere, che non ha mai fine poiché non esistono vittorie, nessuna coppa, alcuna medaglia d’oro, per chi vive sinceramente e affronta senza piegarsi dolori e delusioni, con dignità maggiore di chi è stato spinto da un vento favorevole e leggero.

Per chi non può permettersi questo sogno ma, con tutta la famiglia, lotta a denti stretti, testa alta, spalle dritte e scarpe consunte.

Arya voleva stare lì, voleva essere parole e poesia, sentire il vento che faceva capolino tra le posizioni di braccia e piedi, insinuandosi.

La danza è per chi non potrebbe fare altro che questo, chiamare Casa la scuola che si sceglie, famiglia tutti gli altri allievi con cui ci si scambia sudore, fatica, sorrisi e vita, vissuta per terra, sul parquet, a mezz’ aria e tra le nuvole. Terra e cielo.

Impossibile non essere, impossibile non farlo. Essere ogni movimento, sempre diverso, verso e rima.

Chi vuole danzare, a 3 anni come a 30, non lo fa per le audizioni o per lo spettacolo di fine anno. Non lo fa per il successo o la gloria o peggio ancora perché la cugina, l’amica del cuore, la zia, la nonna, la migliore amica si è iscritta a danza.

Chi sente il vulcano dentro lo fa senza limiti, privo di condizionamenti,

dipingendo nell’aria, disegnando il proprio credo, mentre la musica sospira e ammira la poesia.

Gli occhi di un ballerino mentre danza, parlano più dei suoi piedi che tecnicamente eseguono un passo.

La ricchezza di chi entra in sala e poi  in teatro è la libertà di volare oltre ogni cosa. Al di là delle apparenze, oltre l’obiettivo e gli stimoli terreni, la danza è per chi offre al mondo e a se stesso la possibilità di vivere, toccando la profondità delle cose.

La danza insegna a non abbandonare, a non mollare, a non avere bisogno di pressanti, superficiali, innumerevoli stimoli per sorridere alla vita e per amarsi. Arriverà la vocina che dice di mollare, il demone che abbatte e batte, se ne varrà ancora la pena o se è il caso di lasciare stare.

Ma se non ci sarà altro posto che sentirai tuo come il corpo che vibra come corde di violino, se crederai di avere dentro la luce d’oro dell’alba e rossa del tramonto, se ti immaginerai finestra che accoglie i raggi del sole con il mare all’orizzonte, se vedrai il mondo in un granello di sabbia e l’infinito racchiuso in quello che interpreti, allora non ci saranno luoghi comuni e universalmente riconosciuti come tali e reali nell’Italica patria.

Saremo coloro che accetteranno una figlia per quello che è, hic et nunc, ora e per sempre, nell’evoluzione e rivoluzione degli anni che avremo da gustare, liberi da sovrastrutture, sporchi di pece per non scivolare e se inciamperai, se scivolerai anche con la pece, dentro e fuori la sala, avrai la giusta leva che ti permetterà di alzarti, pulirti, sporcarti ancora e ricominciare, da dove hai lasciato o da zero.

È vero. L’aspettativa più nobile e importante che un genitore dovrebbe porsi per i propri figli è quella che diventino qualcuno: ovvero quello che sono nella profondità del loro carattere e delle loro inclinazioni, monitorando sorrisi e suoni generati dalla loro felicità senza limiti.